Almeno dodici milioni di persone nel mondo non hanno alcuna cittadinanza: sono apolidi. Per questo, più esposte di altre ad abusi, privazioni di diritti, discriminazioni. La cifra, stimata per difetto, è contenuta nel comunicato con cui oggi l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha lanciato la sua nuova campagna, dedicata proprio agli apolidi di tutto il mondo.

“Sono persone che hanno bisogno di aiuto, perché vivono in un limbo legale che spesso diventa un incubo”, ha detto a Ginevra Antonio Guterres, capo dell’Unhcr. La campagna è stata lanciata in vista dell’anniversario, martedì prossimo, della Convenzione internazionale per la riduzione dell’apolidia, che compie 50 anni. “La Convenzione del 1961 è stata adottata da un numero molto basso di Paesi – ha spiegato ancora Guterres -. Solo 38 l’hanno ratificata e questo rende molto difficile fornire un quadro legale condiviso per le persone apolidi”. Un po’ di più, 66, sono i paesi che hanno adottato la precedente convenzione, quella del 1954 sui diritti degli apolidi. “E’ una vergogna che milioni di persone vivano senza una nazionalità riconosciuta, che è un diritto fondamentale, e il problema è aggravato dal fatto che le conseguenze di questo fatto sono quasi invisibili, se non per le persone che le subiscono”, ha concluso Guterres presentando la nuova campagna.

Secondo i dati dell’Unhcr, il problema degli apolidi è particolarmente grave in Asia orientale e centrale, ma anche in Europa orientale e nel Medio Oriente. “Negli ultimi venti anni, la formazione di nuovi Stati, la dissoluzione di vecchi Stati e lo spostamento di confini sono state tra le cause principali per l’aumento del numero degli apolidi”, ha spiegato Mark Manly, capo dell’unità dell’Unhcr che si occupa di loro. “Essere apolide vuol dire essere senza cittadinanza e dunque non avere accesso a una lunga serie di servizi e di opportunità, dalla scuola al lavoro, dall’assistenza sanitaria all’acquisto di una casa, alla registrazione di un figlio o perfino alla semplice apertura di un conto corrente bancario”.

Uno degli aspetti più gravi è che spesso lo stato di apolide è “ereditario”. Per la legge di molti Stati non basta essere nati in un posto per essere cittadini (ius soli) ma la cittadinanza dipende da quella dei genitori (ius sanguinis). Il risultato è che i figli di genitori apolidi, diventano apolidi, anche se nascono e spesso crescono e vivono in un solo Paese, dove magari i genitori si sono rifugiati scappando da emergenze umanitarie o guerre. E’ il caso per esempio di molte persone, in maggioranza rom, che in Europa si sono disperse dopo il crollo della ex Jugoslavia: lo Stato di cui avevano documenti non esiste più e i nuovi stati non li riconoscono come cittadini. Se vanno in qualche altro Paese europeo, sono considerati apolidi, e i loro figli con loro, rendendo molto difficile qualsiasi politica di accoglienza e integrazione. Se finiscono in prigione, la loro tutela legale è molto debole, visto che non possono dimostrare da quale Paese provengono.

Simile al caso dei rom in Europa è quello della minoranza musulmana dei Rohyngia, in Myanmar, di alcuni popoli indigeni in Thailandia e dei Beduini di alcuni stati del Golfo Persico, esclusi dalla cittadinanza quando si sono formati i rispettivi Stati indipendenti. Con l’ultimo Stato nato nella comunità internazionale, il Sud Sudan, il numero degli apolidi potrebbe aumentare, se non si definirà rapidamente lo status dei sud-sudanesi che vivono nel nord e dei nord sudanesi che vivono nel sud.

Secondo l’Unhcr, inoltre, ad aggravare il problema ci sono legislazioni sulla cittadinanza che discriminano le donne: Paesi come l’Egitto, la Turchia, l’Indonesia e il Kenya solo di recente hanno iniziato a modificare la legge che impediva di trasmettere la cittadinanza anche da parte della madre. L’effetto di leggi restrittive o discriminanti sulla cittadinanza è che se una donna sposa uno straniero, rimane legata alle scelte del marito e rischia di diventare apolide in caso di divorzio. Uno degli obiettivi concreti della campagna dell’Unhcr è proprio eliminare, entro un anno, le discriminazioni di genere nelle leggi sulla cittadinanza. Una sfida che riguarda almeno 30 Paesi in tutto il mondo.

di Joseph Zarlingo

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