Osservo le giovani leve calcistiche godersi il riposo del guerriero su panchine che li fanno apparire vecchi, più che meritevoli. Ma non penso un solo istante che sia colpa loro. Penso a chi li tira su. Ci dev’essere un filo che collega questo quadretto della fatica allo sciopero dei calciatori, quella pretesa strafottente che fa di questi ragazzi giovanissimi, pagati profumatamente per giocare a pallone, adulti perfettamente viziati al privilegio e allo sfregio di chi lavora veramente. Ci dev’essere un legame tra i dilettanti che siedono a 17 anni già stanchi su una panchina, privando forse chi ha versato quarant’anni di contributi di una pausa all’aria aperta, e i professionisti che aspirano ad essere e che non scendono in campo perché preferiscono scendere in sciopero.
Son convinto che per ogni giovane che cresce c’è un adulto sempre più adulto di lui che, con la scusa di farlo diventare grande, lo anabolizza all’aspirazione della ricchezza, dell’apparenza e della vanità: in questo caso il calciatore. Che uno sportivo così sia strapagato è un problema della gente comune, che lo pretende mitico, perché ha bisogno di idoli in cui credere, non uomini qualunque, che quelli si fa sempre in tempo ad esserli. Ma che un calciatore si permetta di scioperare, di vivere una vita parallela alla faccia di chi si fa un mazzo tanto e poi chieda pure di essere esaltato dalla folla è un fatto che mi schifa. Posso solo cercare di immaginare cosa passa per la testa di un calciatore professionista che sciopera e allora mi convinco che una tale presa in giro si giustifica col fatto che questi lavoratori da stadio fanno un mestiere che fa definitivamente parte della nostra cultura, quella di fare tutto con i piedi.