Eccoci dunque, caro Marco Travaglio, a leggere la tua verità su giornalismo e libertà. Hai un pensiero semplice e diretto, dunque facile da riassumere: secondo te in Italia il giornalismo non è libero perché gli editori quando assumono i giornalisti non li lasciano liberi, semplicemente liberi, di lavorare secondo il contratto nazionale, rispettando le regole deontologiche. Ma impongono loro invece censure e direttive editoriali che contraddicono il mestiere stesso del giornalismo, che invece nel mondo si professa con tutto il suo inebriante sapore di libertà assoluta. Purtroppo questa visione delle cose mi appare alquanto ingenua. Ma non solo, attenzione, perché in Italia il giornalismo viene schiacciato sotto una serie di conflitti di interessi che sono sotto gli occhi di tutti. Mi spiego meglio.
Mettiamo che Berlusconi non esista, e prima o poi accadrà no? Ci troveremo solo davanti ai suoi figli, potenze editoriali di prim’ordine, e con legami politici preferenziali col Pdl o quel che verrà. Ecco, davvero pensiamo a quel punto, se Bersani fosse il capo del governo, al gruppo Repubblica i giornalisti sarebbero così liberi di scrivere quel che gli pare? E tutti i giornalisti, non solo le firme più autorevoli! (Credo che il grado di libertà non si debba misurare da quanto sono liberi i generali, ma anche i soldati semplici). Ma se a volte anche alla rubrica dei libri dei magazine del gruppo di De Benedetti vien chiesto di privilegiare i gruppi editoriali più vicini a loro piuttosto, che so, di applicarsi alle novità del suo diretto concorrente Rizzoli! E parliamo di libri, e non è uno scoop. Davvero pensiamo che la libertà effettiva sia esprimere le proprie idee politiche e non piuttosto rappresentare un insieme complesso di legami sociali, culturali e, in ultima analisi, economici che incarnano la libertà nella comunità alla quale, magari temporaneamente, apparteniamo? Suvvia!
Diciamolo francamente, lo sappiamo tutti: l’unico modo di essere liberi in maniera assoluta è comprare gli strumenti della propria espressione. E’ la strategia vincente del Fatto Quotidiano. Ma con la tv è un po’ più complicato, e naturalmente non a tutti è consentito per ovvi motivi. Santoro, come gli altri, dovrà sempre avere a che fare con proprietari più o meno intelligenti, più o meno interessati a fare lobbyng – come avviene, questo sì, in tutto il mondo occidentale “libero” -, a non contrastare troppo le aziende che garantiscono i ricavi pubblicitari, e si troverà insomma a godere della libertà che in quel determinato momento storico un editore decide di permettersi. A meno di non immaginare uno “spazio pubblico”, di cui sono proprietari i cittadini, nel quale sono solo i cittadini a decidere con la loro quota di share chi possa essere libero e chi no.
Ma questo spazio pubblico, la Rai, come sappiamo, non esiste più, e forse non è mai esistito realmente. E negli anni ’90 Santoro lavorò addirittura con Berlusconi, quando questo decise di permettersi fiori all’occhiello, come Le Iene prima maniera e appunto Michele Moby Dick. Erano “liberi” nella misura in cui voleva che fossero liberi il proprietario Silvio, mica il contratto nazionale. Michele, il più grande direttore d’orchestra italiano dei programmi di attualità, sappiamo tutti che potrà essere completamente libero solo nel momento in cui comprerà, o gli verrà permesso di comprare, un network televisivo. A quel punto, in quanto proprietario, potrà fare quel che gli pare. E non in nome del giornalismo libero, ma del principio, ahimé, molto più determinante della “proprietà privata”.