Sabato 27 agosto oltre 1000 persone a Coira, Svizzera, hanno preso parte alla manifestazione appoggiata da diverse organizzazioni ecologiste “Nessun danno al clima dai Grigioni: centrali a carbone addio”, per protestare contro la prevista costruzione di due centrali elettriche a carbone, in Germania e in Italia. La manifestazione, che ho potuto seguire direttamente, promossa dall’associazione Zukunft Statt Kohle (“Futuro invece di carbone”), si è data l’obiettivo di sensibilizzare la popolazione locale per bloccare gli investimenti di Repower, un’azienda elettrica con sede nel cantone svizzero. Al Governo grigionese, che controlla il 46 per cento della società, sono state rivolte dure critiche e gli oppositori hanno annunciato di voler presentare un’iniziativa che imponga al governo locale di assicurare che l’azienda elettrica non possa investire all’estero in nuove centrali a carbone. Erano almeno centocinquanta gli attivisti giunti da Brunsbüttel in Germania e dall’Italia da Saline Joniche, dove dovrebbero tradursi in impianti insalubri gli investimenti di capitali elvetici. L’iniziativa nella capitale grigionese dimostra che l’impegno per il clima va ben oltre l’ambito locale e ha un riconosciuto valore internazionale.
Coira si connota nella storia elvetica come luogo di partecipazione, che associa il rispetto dell’ambiente all’immagine delle Alpi. Sebbene abbia ospitato un evento circoscritto, ha saputo rappresentare al meglio lo sbocco efficace di uno sforzo di preparazione in territori tra loro distanti e diversissimi, una volta tanto uniti da valori non commerciali. Il messaggio simbolico che la manifestazione ha rimandato, in un formidabile intreccio locale e globale, è stato molto forte e potrà produrre un effetto rilevante sugli stessi programmi energetici italiani. Pertanto la notizia va diffusa, proprio perché la stampa nazionale l’ha colpevolmente oscurata. Per la verità, una conferenza stampa tenuta a Reggio Calabria da Legambiente e dai movimenti meridionali contro il carbone ha cercato di rompere il silenzio, almeno sul territorio, ma la partita si gioca a un livello più alto. Nonostante le forzature del nostro governo e le pressioni sul posto, emerge l’incapacità dei sostenitori della centrale di dare risposte credibili ai ragionevoli dubbi sulla sicurezza, sui pericoli d’inquinamento e sulla reale ricaduta occupazionale. Mentre emerge chiaramente l’incompatibilità con le scelte di sviluppo sostenibile dell’area, l’operazione della centrale si manifesta per quello che è: il risultato della saldatura tra schieramenti politici, interessi d’impresa e interessi speculativi di soggetti locali, dove le infiltrazioni mafiose sono all’ordine del giorno. Con una copertura nelle sedi nazionali che contano.
Il nostro governo spinge, anche dopo il risultato referendario, per riconfermare un ricorso sconsiderato all’energia fossile, a discapito del modello territoriale fondato sul risparmio e sulle rinnovabili voluto dai cittadini. Lo sta a dimostrare anche l’inopportuna, se non cinica, presenza dell’amministratore delegato dell’Eni all’incontro tra Berlusconi e il rappresentante libico in Prefettura a Milano. Qui il cambio di casacca da sodali a nemici di Gheddafi è avvenuto non certo sotto il segno della libertà popolare riconquistata, ma del business del gas e del petrolio da accaparrarsi al più presto. D’altra parte tutta la manovra Tremonti è costruita per rilanciare modelli e ricette che si rifanno al vecchio e che sono direttamente responsabili di una crisi contemporaneamente finanziaria, ambientale e sociale. Nessun cenno o nessuna misura sul tema centrale dell’energia che contempli un rilancio occupazionale e un risanamento ambientale, né che si misuri con la rivoluzione necessaria nella lotta ai cambiamenti climatici, con gli orientamenti energetici più avanzati dell’Europa e con la volontà espressa dal corpo elettorale.
I segnali che vengono, ad esempio, dal Giappone, dalla Germania e, sempre più sorprendentemente, perfino dalla Svizzera, dicono che 27 milioni di cittadini italiani hanno anticipato i tempi di una difficile battaglia politica, economica e culturale, che non si è risolta evidentemente solo con un plebiscito, ma va istruita giorno per giorno sia a livello locale sia a livello più ampio. Le dimissioni del premier giapponese, le decisioni del governo tedesco, i nuovi obiettivi di contenimento delle emissioni approvate dall’Europa nel silenzio dei governanti italiani, fino ai fatti più “minuti” di Coira, indicano un processo attivo comunque in corso, dall’esito non scontato, ma a direzione irreversibile.
Lo richiama un’affermazione di Francesca Panuccio del Coordinamento dei movimenti contro la centrale di Saline Jonica: “Abbiamo studiato, ci siamo informati, abbiamo condiviso, facendo rete con gli altri movimenti nocoke nazionali e internazionali, acquisendo quelle competenze che oggi ci permettono di ribattere punto su punto alle baggianate di Repower, che con fare presuntuoso tenta di scavalcare i pareri contrari degli enti locali e di imporre dall’alto il suo progetto scellerato: sappia che potrà derogare alle norme, ma non alla volontà popolare”. E lo conferma la prima vittoria ottenuta dai movimenti del delta del Po: il Tar si è pronunciato contro l’avvio dell’impianto Enel a Porto Tolle (una megacentrale di potenza pari a tre reattori nucleari Epr cancellati dal sì del 13 giugno) con la motivazione che non è possibile calpestare il parere degli enti locali e delle popolazioni o eludere gli scenari alternativi al carbone.