Le università telematiche sono tra le innovazioni più reclamizzate del duo Letizia MorattiLucio Stanca. Era il 2003, sotto il governo Berlusconi. Da allora, nel giro di pochi anni si è creata una giungla di iniziative, tra corsi di laurea di ogni tipo (ma principalmente di tipo umanistico e giuridico), master e corsi di aggiornamento. Ma i principali destinatari delle proposte online sono gli insegnanti, i precari soprattutto, che si iscrivono a questi corsi (e pagano) per acquisire punti utili a piazzarsi in graduatoria. E, mediamente, spendono dai 400 ai 1.500 euro per avanzare in “classifica” e sperare in un posto fisso: alcuni di loro ci arrivano proprio in questi giorni, proprio grazie ai punti acquisiti attraverso questi stessi corsi.

Un fenomeno del tutto fuori controllo che già un paio d’anni fa aveva fatto insospettire il ministro in carica Maria Stella Gelmini: “A un primo esame della situazione – dichiarò – sulla base di dati già disponibili non posso fare a meno di rilevare alcune criticità molto rilevanti. Mi attendo spiegazioni dettagliate e proposte di soluzione, per evitare che degenerino in una vera e propria patologia generalizzata”. Una preoccupazione che pare sia restata completamente lettera morta. Le spiegazioni e le proposte invocate dal ministro, se sono arrivate, sono rimaste nascoste in qualche segreto cassetto.

Per legge ogni precario può guadagnare fino a 10 punti se consegue un attestato rilasciato da una delle miriadi di organizzazioni che in questi anni si sono attivate. Un affare gigantesco. E facile da costruire. Basta mettersi d’accordo con qualche università (atto indispensabile per il rilascio degli attestati) e creare una piattaforma per attirare i clienti con un’offerta di corsi di ogni genere, e non sempre pertinenti. Che quindi potrebbero essere annullati. Ma chi controlla questi attestati e la loro validità? Praticamente nessuno. Sono presentati come autocertificazione e di conseguenza consentono di acquisire quel punteggio che spesso scavalca in graduatoria chi ha un’esperienza maggiore e più punti per il servizio prestato “sul campo”.

Un vero e proprio mercato di punti che crea discriminazioni pesanti fra gli stessi precari. Finora, però, non è stato trovato rimedio. “La Cgil – dice il sindacalista Pippo Frisone – si è sempre battuta contro i diplomifici e contro le tasse occulte sulla pelle dei precari, costretti a iscriversi a corsi e corsettini a volte solo sulla carta per racimolare un punto o tre punti in più in graduatoria. Le ultime tabelle di valutazione hanno limitato il numero fissando un tetto e un punteggio massimo, ma non hanno risolto del tutto il problema sulla serietà dei corsi, su come vengono rilasciati attestati o diplomi di perfezionamento, di specializzazione o master di primo e secondo livello”.

Il sindacalista mette poi il dito in questa piaga: “Questi titoli, riconosciuti nelle graduatorie dei precari, possono rilasciarli solo le università statali o università legalmente riconosciute. Ovviamente ci sono le università serie e quelle meno serie come sempre accade nel nostro Bel Paese. Tra le università più gettonate dai precari c’è l’Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio Calabria, sorta come un fungo nel 2007, fucina di corsi e corsettini a pagamento validi da 3 a 1 punto, come ben si evince dal loro stesso sito. Ma c’è anche il Consorzio Interuniversitario (Forcom), che rilascia diplomi di perfezionamento, per via telematica, di almeno 1500 ore che valgono 3 punti. Ma l’elenco di questi enti sarebbe lungo.

Pochi i precari che, attirati dai punteggi, non si son lasciati tentare da questi corsi e corsettini”. E i costi? Variano da un minimo di 400 euro per un attestato di un punto a 1500 euro per quelli da 3 punti. Un mercato sulla pelle di insegnanti disperati in cerca di un posto fisso che magari aspettano da decenni. Un mercato squallido che agli interessati, oltre ai punti, non dà nulla. “L’ultimo corso che ho frequentato – dice Annarita S., precaria da una dozzina d’anni – si è concluso con un esame svolto attraverso dei testi telematici. Ho risposto a casaccio, ma l’attestato mi è stato ugualmente recapitato. E’ bastato versare altri 50 euro per averlo”. Non cambia molto quando l’esame finale si fa in sede. “Ci hanno convocato in alcune centinaia per volta – racconta Ernesto F., docente di filosofia e precario in attesa di un posto –. Ne hanno interrogati una ventina, poi uno degli organizzatori è venuto a dirci che potevamo andarcene, che tanto l’attestato ci sarebbe stato recapitato a casa dietro il versamento di una tassa. Un finale umiliante. Ma se non facciamo questo percorso il posto ce lo sogniamo”. Questi i presupposti su cui si fonda l’infornata di nuovi insegnanti di ruolo nella scuola italiana. La cosiddetta “scuola del merito” dell’era Gelmini.

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