Ho letto ieri una grande intervista di Andrea Malaguti per La Stampa a Zygmunt Bauman. Un’intervista che, confesso, avrei tanto voluto scrivere io. Sono una grande fan del sociologo, filosofo e conferenziere polacco di origini ebraiche. “Un uomo lungo, con mani sottili e pensieri rapidi”. Che frase elegante!

Nei suoi ultimi lavori, Bauman ha tentato di spiegare la ‘postmodernità’ usando le metafore di modernità “liquida” e “solida”. L’esclusione sociale elaborata da Bauman non si basa più sull’estraneità al sistema produttivo o sul “non poter comprare l’essenziale”, ma del “non poter comprare per sentirsi parte della modernità”. Secondo Bauman il “povero”, nella vita liquida, cerca di standardizzarsi agli schemi comuni, ma si sente frustrato se non riesce a sentirsi “come gli altri”, cioè non sentirsi accettato nel ruolo di consumatore.

Malaguti incontra il maestro nel giardino “selvatico” della sua casa inglese di Leeds: “Lascio che le piante si muovano come credono. Il mio giardiniere è Darwin. L’evoluzione è inarrestabile”. E subito Bauman mi fa una grande simpatia. Anche lui si occupa dell’evoluzione dell’uomo. Di come si organizza in società e della sua stratificazione. Di come è passato dalle rivoluzioni con la lancia a quelle con il computer.

Bauman discetta su differenza tra rete e comunità reale: «La prima è il luogo della libertà. La seconda della sicurezza. Sulla comunità si può contare come su un vero amico. È più affidabile. Ma anche più vincolante. Ti controlla. La rete è libera, ma serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni, in fondo, basta spingere il tasto delete. Però mi pare che siamo tutti d’accordo sul fatto che tra abbracciare qualcuno e “pokarlo” ci sia differenza».

In rete però si possono trovare anche 300 amici al giorno, suggerisce il collega. ”Decisamente molti di più di quelli che io ho avuto nei miei 86 anni di vita. Robin Dunbar, che insegna antropologia evoluzionistica a Oxford, dice che la nostra mente non è predisposta per avere più di 150 rapporti significativi. Siamo fatti così, ci serve la società per essere felici.

Nonostante tutto questo gran parlare di social network, siamo ancora ai primordi della comunicazione via social media. C’è ancora così tanta confusione che Facebook e Twitter o sono amati o sono demonizzati. Chi non sa farne più a meno e li controlla anche nottetempo e chi li snobba con disgusto ciceroniano.

Ho letto pure (su una rivista per “donne intelligenti”) questa domanda a uno scrittore “Fa uso di social network?”, come se fossero psicofarmaci o sostanze vietate! Ovvero, come se uno scrittore (uno che viene per istituto reputato intelligente, insomma) non dovesse/potesse avere un profilo su Facebook.

Facebook, per esempio, all’inizio è sembrato una moda come tante. Anche perché nelle “cose d’informatica” tutto diventa abbastanza rapidamente vecchio: email, sms, mms. Già si preconizza la dipartita di fèisbuk (alla napoletana, come dice la mia amica Marika) per mano di Google+.

Che piaccia o no, il gigante di Palo Alto è una forma di economia (anzi, economy), un sistema ineludibile di interazione, una metafora, un sistema cognitivo che esporta ed importa regole e idiomi. Non è un sistema perfetto, ma è efficace e ci insegnerà parecchie cose sulla comunicazione e sulla sociologia.

Bauman ha ragione da vendere, ma resta il fatto che con questi nuovi metodi  di comunicazione dobbiamo farci i conti. Sono modi, metodi, appunto, non accessori di moda. Come quando i cellulari divennero di massa: ora è difficile pensare di farne a meno. Anche i coraggiosi “desistenti” capitoleranno quando pure le auto comunicheranno con noi attraverso un social media che agisce nell’abitacolo, come fosse un microcosmo o un eco-sistema artificiale.

di Januaria Piromallo

Ps.: Il 6 settembre Zygmunt Bauman parlerà a Sarzana per il Festival della Mente. Se potete, non perdetevelo.

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