Le principali istituzioni finanziarie europee avrebbero utilizzato criteri diversi nella valutazione dei titoli di Stato greci in loro possesso modificando così l’aspetto dei propri conti. Come a dire che gli istituti del Continente starebbero in realtà un po’ peggio di quanto non dicano i loro bilanci ufficiali. Le accuse di JP Morgan e i dubbi del Financial Times
L’allarme lo ha lanciato JP Morgan in un report ripreso oggi dal Financial Times. Le principali istituzioni finanziarie europee, sostiene la banca Usa, avrebbero utilizzato criteri diversi nella valutazione dei titoli di Stato greci in loro possesso modificando così l’aspetto dei propri bilanci. Un precedente che pesa e che rischia di condizionare fortemente le scelte operate dalle banche sui titoli degli altri paesi in crisi (Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia) minando nelle fondamenta la credibilità delle cifre. In sintesi: i bilanci degli istituti di credito europei sarebbero stati abbelliti artificialmente attraverso vere e proprie operazioni di cosmesi contabile. Di conseguenza, le banche europee starebbero di fatto un po’ peggio di quanto non dicano le loro cifre ufficiali.
Tutto ruota attorno a un’espressione che rischia di diventare ben presto famigerata: mark-to-model. Si tratta di un sistema di valutazione basato su modelli matematici e utilizzato dalle società per valutare i cosiddetti assets illiquidi quando né il valore nominale né quello di mercato risultano di per sé indicativi. Traducendo: le banche sono pieni di securities, ad esempio le obbligazioni nazionali, ma non sapendo che valore attribuirgli, si inventano un sistema di valutazione ad hoc che finisce per modificare in meglio i propri bilanci. Prendiamo il caso delle obbligazioni greche: lo scorso anno erano state acquistate a 100 ma oggi si vendono a 50. Come a dire che se l’istituto fosse chiamato a cederle per fare cassa riuscirebbe a recuperare appena metà della cifra spesa l’anno passato per acquistarle. Come prezzarle in un bilancio? Si potrebbe fare ricorso al sistema del valore nominale (100) ma il criterio non sarebbe credibile. La valutazione espressa dal mercato, 50, sembrerebbe la più logica ma al tempo stesso sarebbe anche la più penalizzante. Ed ecco allora la soluzione: gli istituti scelgono di fare ricorso a un modello di valutazione personale (il famoso mark-to-model di cui sopra) ottenendo attraverso una formula matematica un prezzo decisamente migliore. E così, lo stesso bond ellenico che qualcuno ha coerentemente prezzato a 50 (con una perdita rispetto all’anno scorso pari al 50 per cento) si trova a valere 80 per qualcun altro. Capito il trucco.
Di certo lo ha capito l’International Accounting Standards Board (IASB), l’organismo internazionale che formula gli standard contabili e che, in ultima analisi, si è opposto, ma finora senza successo, al ricorso a questo genere di maquillage già osservato in Francia ma sviluppato a quanto pare in tutta Europa. “E’ difficile immaginare che ci siano compratori disposti ad acquistare quelle obbligazioni ai prezzi indicati dai modelli di valutazione utilizzati” ha dichiarato il presidente dello IASB Hans Hoogervorst in una lettera ripresa dal Ft. A fargli eco ci ha pensato invece Peter Elwin, uno dei responsabili del rapporto di JP Morgan: “Non credo che l’uso del mark-to-model sia giustificato nella valutazione dei bond greci”. Per farla breve, sebbene in modo formalmente legittimo (non c’è una legge che lo vieti), i bilanci di alcuni colossi europei sarebbero parzialmente inattendibili.
Al netto di qualsiasi dibattito tecnico sulla bontà dei modelli di calcolo, resta infatti da capire come mai la banca britannica Hsbc abbia svalutato i propri bond ellenici del 53 per cento mentre la francese Bnp si sia limitata a una correzione al ribasso del 23 per cento in linea con le scelte di SocGen (22 per cento), Deutsche Bank e Intesa Sanpaolo (entrambe al 21 per cento). Certo, si dirà, i bond greci non pesano troppo sui bilanci di questi istituti ma il problema, come si diceva, risiede anche nel pericoloso precedente creato nell’occasione. In fondo, come ha scritto il Financial Times, se è vero che “il Paese più indebitato d’Europa (la Grecia, ndr) ha dovuto ricevere due interventi di salvataggio prima che alcuni creditori iniziassero a svalutare i titoli in loro possesso” è evidente che “sarà ancora più dura convincere gli stessi a fare nuove valutazioni sui debiti di Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia”.
Quello dei sistemi contabili, per altro, resta uno dei nodi più complicati in campo regolamentare. E la stessa IASB, oggi piuttosto innervosita dalle scelte delle banche, non può dirsi immune da colpe. Il 13 ottobre 2008 l’organismo approvò una modifica alla norma 39 dei principi contabili internazionali consentendo alle società di derogare al principio del mark to market (attribuire un valore secondo il prezzo di mercato corrente) nella classificazione delle attività illiquide. In pratica, i titoli tossici della crisi ormai privi di mercato o quasi avrebbero potuto essere incredibilmente rivalutati in nome di un prezzo “nominale” del tutto illogico. Applicando la nuova norma alcuni istituti italiani riuscirono allora ad ottenere in un attimo risultati trimestrali a dir poco clamorosi: 551 milioni di utile netto per Unicredit al posto del previsto rosso da 90 milioni, 673 milioni di profitto netto contro una perdita da 141 per Intesa Sanpaolo, 52 milioni di utile contro 9 per Carige. Nello stesso periodo, Deutsche Bank, riconteggiando circa 25 miliardi di assets, registrò un utile da 414 milioni di euro contro i 431 milioni di perdite previste.