Che ci crediate o no, io quella belva nera, con gli occhi da pantera, l’ho vista.
E per dirvelo con chiarezza, non ha solo gli occhi che le competono, ma anche la bocca armata fino ai denti di zanne feline, innervosita da quel che le è capitato. Apparentemente persa fra la macchia mediterranea e quei tanti noti vigneti, era incerta su come fare a lasciarsi alle spalle Grosseto per una plateale entrata a Pisa, spacciandosi per una lonza livornese, o viceversa. Nell’indecisione, e per fame e non fama, si è dovuta accontentare tutta l’estate di un cinghiale maremmano. Lui, grugnando molto poco contento, era però sereno di non essere sparato e poi congelato per future gozzoviglianti e pantagrueliche cene di questi moderni cacciatori, e accoglieva rassegnato l’orgogliosa fiera morte.
In realtà tutte queste fugaci apparizioni sulla stampa l’avevano annoiata, stancata e costretta a risolvere un problema di ubiquità: essere in un giardinetto cittadino e contemporaneamente in un fondovalle non è cosa semplice, ed è più facile a dirsi che a farsi.
Ho visto anche chi l’ha abbandonata, sulla vecchia Aurelia, perdendo così la retta via, non potendola portare a Capalbio, luogo notoriamente pieno di comunisti-animalisti, e chi più ne ha più ne am-metta, o quantomeno ne denunci l’esistenza o la resistenza a qualsiasi cambiamento.
Due figure avevano scaricato nottetempo la povera fiera fra i vecchi platani dove io, non visto, mi ero fermato a fare, ripeto non visto, quel che gli uomini della mia età fanno dopo abbondanti cene e bevute: una liberatoria minzione, recitando a casaccio e per ebbrezza da palloncino, “van da San Guido in duplice filar alti e schietti”. Questo mio silenzioso berciare non l’aveva evidentemente spaventata, anzi, abituata dai suoi geni a muoversi felpata fra i numerosi gracchiamenti notturni delle sue giungle, mi si è strusciata alle gambe come uno dei miei gatti. Le mie ginocchia non hanno fatto in tempo a fare Giacomo-Giacomo pensando per naturale e maschile prudenza subito di riporre in sicurezza quel che avevo fra le mani.
Lasciata a fine corsa la cerniera chiusa, le mani non hanno resistito e d’istinto le ho fatto un gratto-gratto contropelo a cui lei a risposto appoggiandosi ancor di più con quel suo capoccione.
A quel punto l’insospettabile e agghindata coppia ha continuato come se nulla fosse a parlare della loro prossima meta. E via, son ripartiti con la loro macchina blu, lasciandoci completamente soli.
E lì che l’animale mi ha parlato, confessandomi che era la reincarnazione di un San Francesco che a sua volta era la reincarnazione di tanti poveri Cristi e che era tornata fra gli uomini per riprovarci un’altra volta: far fare pace ai pisani e livornesi, cacciare nel vero senso della parola qualcuno questa volta non dal ma nel tempio e via avanti nella speranza di un mondo migliore.
Illustrazione di Giulio Picchi
Fate quel che vi pare ma ne son certo, è l’inizio della fine e poi tutto andrà come deve andare.
Che ci crediate o no, io quella belva nera, con gli occhi da pantera, l’ho vista.
E per dirvelo con chiarezza, non ha solo gli occhi che le competono, ma anche la bocca armata fino ai denti di zanne feline, innervosita da quel che le è capitato. Apparentemente persa fra la macchia mediterranea e quei tanti noti vigneti, era incerta su come fare a lasciarsi alle spalle Grosseto per una plateale entrata a Pisa, spacciandosi per una lonza livornese, o viceversa. Nell’indecisione, e per fame e non fama, si è dovuta accontentare tutta l’estate di un cinghiale maremmano. Lui, grugnando, molto poco contento, era però sereno di non essere sparato e poi congelato per future gozzoviglianti e pantagrueliche cene di questi moderni cacciatori, e accoglieva rassegnato l’orgogliosa fiera morte.
In realtà tutte queste fugaci apparizioni sulla stampa l’avevano annoiata, stancata e costretta a risolvere un problema di ubiquità: essere in un giardinetto cittadino e contemporaneamente in un fondovalle non è cosa semplice, ed è più facile a dirsi che a farsi.
Ho visto anche chi l’ha abbandonata, sulla vecchia Aurelia, perdendo così la retta via, non potendola portare a Capalbio, luogo notoriamente pieno di comunisti-animalisti, e chi più ne ha più ne am-metta, o quantomeno ne denunci l’esistenza o la resistenza a qualsiasi cambiamento.
Due figure avevano scaricato nottetempo la povera fiera fra i vecchi platani dove io, non visto, mi ero fermato a fare, ripeto non visto, quel che gli uomini della mia età fanno dopo abbondanti cene e bevute: una liberatoria minzione, recitando a casaccio e per ebbrezza da palloncino, “van da San Guido in duplice filar alti e schietti”. Questo mio silenzioso berciare non l’aveva evidentemente spaventata, anzi, abituata dai suoi geni a muoversi felpata fra i numerosi gracchiamenti notturni delle sue giungle, mi si è strusciata alle gambe come uno dei miei gatti. Le mie ginocchia non hanno fatto in tempo a fare Giacomo-Giacomo pensando per naturale e maschile prudenza subito di riporre in sicurezza quel che avevo fra le mani.
Lasciata a fine corsa la cerniera chiusa, le mani non hanno resisto e d’istinto le ho fatto un gratto-gratto contropelo a cui lei a risposto appoggiandosi ancor di più con quel suo capoccione.
A quel punto l’insospettabile e agghindata coppia ha continuato come se nulla fosse a parlare della loro prossima meta. E via, son ripartiti con la loro macchina blu, lasciandoci completamente soli.
E lì che l’animale mi ha parlato, confessandomi che era la reincarnazione di un San Francesco che a sua volta era la reincarnazione di tanti poveri Cristi e che era tornata fra gli uomini per riprovarci un’altra volta: far fare pace ai pisani e livornesi, cacciare nel vero senso della parola qualcuno questa volta non dal ma nel tempio e via avanti nella speranza di un mondo migliore.