Ma il Partito democratico vuole davvero mandare Silvio Berlusconi all’opposizione? Sono molti i dubbi sulla strategia (ma sarebbe meglio dire, non-strategia) e sulle scelte (ma sarebbe meglio dire non-scelte) che il partito di Pierluigi Bersani continua a dilazionare, rimandare, pasticciare.
Dai referendum alla coalizione, dalla questione morale alla questione sociale, dalle questioni civili al governo, alla manovra, mancano pronunciamenti chiari. Arturo Parisi, un dirigente capace di analisi brutali spiega l’attuale stallo così: “Pensate a questo paradosso. Il Partito democratico di oggi è troppo diviso al suo interno per diventare il perno di una coalizione, come fu per il Pds del 1996. È troppo limitato, nel suo spettro politico-culturale, per incarnare in sé la vocazione maggioritaria che era stata sognata da Walter Veltroni. È troppo grande per morire, o – meglio – cambiare. Così, non volendo fare nulla, vegeta”.
Solo un paradosso? Mettendo in fila le grandi questioni di questi mesi, si fatica a trovare un solo tema su cui il Pd sia stato unito. Il primo punto, per così dire strutturale, è la decisione di non mettere insieme, mai, intorno a un tavolo i leader della nuova coalizione di centrosinistra. Malgrado sia Nichi Vendola che Antonio Di Pietro abbiano più volte chiesto di formalizzare un accordo. La spiegazione logica è questa: aspettando che Pier Ferdinando Casini scelga, preferisce non scegliere. Una strategia che Di Pietro considera scellerata: “Se uno sta costruendo un palazzo, deve partire dalle fondamenta. Non far partire i lavori dicendo ‘Ma io ci vorrei anche un terrazzo’ è una cosa senza senso”.
Il non scegliere permette fra l’altro di non sciogliere un altro nodo: la federazione della sinistra è dentro o fuori dalla coalizione? Mistero. Non scegliere permette di rinviare tutto. L’anno scorso, a ottobre, feci un’intervista a Bersani, su questo punto: “Mi sono rotto le scatole. A gennaio convoco tutti, chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”. Non si è fatto nulla. In Inghilterra il successore di Blair è stato scelto due anni prima del voto, in Grecia Andreas Papandreou cinque anni prima, in Spagna il successore di Zapatero – Recalcaba – era in campo un anno prima della data del voto.
L’altro nodo sono le primarie. Anche quelle chieste a gran voce da Vendola. Di Pietro ha recentemente aggiunto: “Decidano loro quando farle. Se ci sono mi candido”. Il Pd non le vuole fare, e Bersani le ha sempre ostacolate. Perché? Anche qui per via delle sue divisioni interne. Un anno fa temeva i sondaggi che indicavano sia Vendola che Chiamparino come più popolari di lui. Subito dopo si sono aggiunti due timori: le primarie renderebbero impossibile un governissimo, prodotto da una eventuale crisi del berlusconismo. E una seconda candidatura del partito renderebbe difficile vincere la sfida per l’ex ministro. Eppure sono state le primarie a far scegliere (e legittimare) i candidati vincenti, da Pisapia a De Magistris, da Zedda a Fassino. Ma mettere in campo quest’arma, vuol dire rinunciare alla golden share delle segreterie. Ecco perché non scegliere è meglio.
Il governissimo, poi, è un altro nodo dolente: una parte del Pd lo sogna, l’altra la considera un incubo. L’estate scorsa, nel pieno del terremoto dei finiani, Bersani disse: “Qualsiasi altro premier oltre Berlusconi ci va bene”. I giornalisti chiesero: “Anche Tremonti?”. Bersani rispose: “Ho detto chiunque”. Tutti i giornali titolarono: “Bersani lancia Tremonti”. I veltroniani insorsero, Bersani frenò. Ma non era finita: anche dopo quella polemica D’Alema disse a Massimo Giannini: “Tolgano Berlusconi e noi ci faremo carico”. Era la tentazione del governissimo che tornava. Non scegliere è l’unico modo per risolvere il problema.
E qui si arriva al problema dei referendum. Quelli su acqua, legittimo impedimento e nucleare furono sottovalutati, se non osteggiati dall’attuale gruppo dirigente. Bersani disse: “Negli ultimi nove anni il quorum non è mai scattato…”. C’erano più uomini del Pd nei comitati del no che in quelli del sì. Ma il popolo democratico la pensava diversamente. Bersani, negli ultimi dieci giorni, scarica la destra interna e sceglie di sostenere il voto. Ma solo un mese dopo, quando partono i due quesiti di Parisi e di Passigli per emendare il porcellum, di nuovo il Pd si spacca: chi vuole il proporzionale puro, chi sogna il maggioritario. Di nuovo l’unico modo è non scegliere. E così Bersani gela i veltroniani, che erano già mobilitati con il professore: “Il Pd le leggi le cambia in Parlamento”. Ma come, se c’è una maggioranza berlusconiana?
Al Senato il testamento biologico passa con i voti di diversi democratici e con interviste pubbliche di diversi dirigenti che annunciano il sostegno al disegno di legge del centrodestra. E sulle province? La loro abolizione era addirittura nel programma elettorale. Ma il giorno del voto alla Camera il Pd ha scelto di astenersi. Non scegliere sulle questioni del lavoro ha voluto dire che il Pd ha abbandonato gli operai della Fiat nelle braccia di Marchionne. Ai tempi del referendum su Pomigliano disse: “So che gli operai faranno la scelta migliore”. Dimenticandosi di dire quale, però. Ai tempi del referendum su Mirafiori, disse ancora meno, mentre tutti i dirigenti – da D’Alema a Chiamparino, a Fassino – sostenevano parcamente il coraggio di Marchionne. Morale della favola: non scegliere per non avere problemi con Cisl e Uil, e l’ala moderata ex Margherita.
Alla fine, quello che la Fiom diceva inascoltata si è rivelato vero: il ricatto era un bluff, la Fiat sta fuggendo in America e i tanto promessi Suv a Mirafiori non si fanno più. Ma a non scegliere il Pd, cosa ci guadagna? Questa è la risposta più difficile. Non scegliere porta a perdere, ma garantisce una rendita di posizione. L’egemonia sull’opposizione, il sottogoverno, la carta di riserva di un governissimo. Il segretario viene inquadrato mentre si arrotola il sigaro, sempre in relax, simbolicamente pronto alla siesta. La domanda per lui è: non vale la pena di rischiare, nello sfacelo del berlusconismo, e provare a vincere?
Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2011