Mentre il mondo dà la caccia a Gheddafi, io leggo un libro. Il libro è Il sogno del Celta di Mario Vargas Llosa (Einaudi), in cui si racconta la vita di Roger Casement, patriota irlandese e diplomatico vissuto a cavallo fra Otto e Novecento e divenuto famoso per aver denunciato al mondo gli orrori che venivano perpetrati in Congo e nell’Amazzonia in nome dello sfruttamento coloniale delle risorse presenti in quei territori.
L’assoluta bellezza di certa narrativa è che riesce a mettere il lettore di fronte alla realtà storica contemporanea fornendo tutti gli strumenti di comprensione di cui si ha bisogno, e tutto questo parlando di un tempo che invece sembra così fatalmente lontano, nello specifico l’epoca delle grandi esplorazioni geografiche nelle terre vergini e dell’“esportazione della civiltà”.
Così, se oggi quel movimento di idee d’ispirazione liberal e radical a tutti noto come Politically Correct ha bandito la parola “civiltà” dalle voci export delle grandi potenze economiche occidentali (il relativismo culturale ci ha nel frattempo insegnato che ogni ambito culturale, anche quelli che per i nostri canoni di sviluppo appaiono selvaggi ed arretrati, ha una sua indiscutibile valenza e specificità), l’opinione pubblica si è assuefatta a un’altra espressione, ben più edulcorata e adatta ai tempi, con la quale vengono ormai giustificate tutte le guerre: “Esportazione della democrazia”.
Come ben sappiamo, in questo contesto, la sostituzione della parola “civiltà” con la parola “democrazia” altro non è se non una maschera, un travestimento che serve a celare gli ingenti interessi di natura politica ed economica sollecitati dalla possibilità di mettere le mani sulle ricchezze di una determinata regione.
Niente di nuovo, dunque, sotto le luci del mondo.
Allora ecco che, mentre leggo Il Sogno del Celta, l’intervento militare in Libia attuato dalla “comunità internazionale” (altra definizione stonata, visto che il paese verso cui si muove guerra, ossia la Libia, non sta su Giove) – pur essendo legittimamente supportata da solidi argomenti di natura umanitaria e dalle legittime richieste di un movimento popolare non religioso che si ribella, chiede libertà e lavoro – assume nella mia testa tratti fortissimi di sfruttamento neocoloniale (il neocolonialismo – occorre ricordarlo – è la linfa che nutre alla radice l’idea occidentale del libero mercato).
Dunque, dopo Corea, Cambogia, Vietnam, Iraq, Somalia, Afghanistan e ancora Iraq, oggi è la volta della Libia (domani molto probabilmente toccherà all’Iran). In tutti questi casi scovare ragioni valide e apprezzabili per muovere, via via, guerra a feroci dittatori, asfissianti ideologie, pericolosi fondamentalismi religiosi, è stato un gioco facile. Se l’assenza di democrazia non basterà più a giustificare le missioni, all’occorrenza inventeremo un’altra parola. Per dirla sempre con Vargas Llosa: “In questa società ci sono certe regole, certi pregiudizi e tutto quello che non vi si adatta sembra anormale, un delitto o una malattia”.