Cinema

Contagion, l’epidemia di Soderbergh
tra paura e rappresentazione della realtà

Presentato fuori concorso al Festival di Venezia il nuovo film del regista americano. Una nuova peste globale uccide più di 70 milioni di persone in un crescendo di caos sociale con scene di saccheggi che sembrano quelle di un mese fa in Inghilterra

di Davide Turrini

Dopo la Sars e l’influenza H1N1 è l’ora del MEV-1. Eccola la sigla della peste globale che ammazza in nemmeno 130 giorni più di 70 milioni di abitanti della Terra in Contagion, il nuovo film di Steven Soderbergh, presentato fuori concorso al Festival di Venezia. E se il Lido è tutta palude, caldo tropicale e strette di mano sguscianti per il sudore quasi viene la paura di prendersi una qualche infezioncina. In un festival del cinema, che già nel 2009, grazie a parecchi arrembanti inviati, si era trascinato dietro bacilli di Suina proveniente dal Centro America.

Nell’apocalypse movie di Soderbergh tutto comincia a Hong Kong. È la povera Gwyneth Paltrow il primo tramite del terribile MEV-1. Emicrania, tosse col fischio, convulsioni muscolari, spasmi e bava alla bocca: una volta iniziata la trafila di sintomi non si torna più indietro. Intanto la Paltrow, alias Beth, ha già infettato tutto il vicinato di una congelata Minneapolis, compreso il figlioletto, ma non il maritone Matt Damon.

Se c’è un pregio nell’ultimo Soderbergh è proprio la capacità di maneggiare una dimensione del reale che fa quasi più spavento di un qualsiasi effettaccio gore (si legga lo scoperchiamento del cranio della Paltrow in autopsia che sconcerta). Perché gli assalti ai supermercati e la rabbia popolare tramutata in saccheggio che vengono rappresentati in Contagion, dall’Asia alle Americhe, paiono più la Tottenham di un mese fa o le banlieue parigine di qualche anno addietro che un qualsiasi zombie movie di George Romero.

Così predominano caos sociale e guerra globale: suburra contro autorità, elettori contro Congresso, America contro Cina, Ovest contro Est. Velata allusione alla crisi finanziaria attuale, anche se in Contagion l’impianto drammaturgico alla fine risulta più importante di qualsivoglia lettura ideologica.

Niente da dichiarare in un’affollata conferenza stampa, con una Paltrow assolutamente solare in completino corto color salmone, Laurence Fishburne gabbana viola da griot maliano e un Matt Damon skinhead probabilmente contagiato e ora sotto cura. Il cinema è spettacolo e si chiude lì.

Anche se Soderbergh, abituato a spaziare dallo sperimentale (Bubble, The girlfriend experience) al commerciale puro (la saga di Ocean), sembra più un erede di quei cineasti liberal alla Pollack, piuttosto che un cialtronesco George Pan Cosmatos di Cassandra Crossing. Gira oramai tutti i suoi ultimi film con straordinario mimetismo figurativo grazie alla Red Camera digitale che sembra pellicola, facendo perfino ragionare i suoi personaggi attorno allo scontro epocale tra giornalismo cartaceo e web (a proposito, l’infingardo free lance Jude Law è davvero un farabutto) e allo scenario sanitario planetario che senza esclusione di colpi gioca sulla pellaccia dei cittadini più disgraziati. In una vecchia gag di Cochi e Renato si diceva “7+”. Assolutamente d’accordo.

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