Diceva Billy Wilder che gli austriaci sono dei geni perché hanno fatto credere che Beethoven fosse austriaco e Hitler tedesco. Ma i banchieri di oggi si rivelano ancora più astuti, perché hanno convinto governi e autorità di vigilanza che era necessario un salvataggio in massa (che è la causa prima dell’esplosione dei deficit pubblici) e che per il futuro sono necessari solo ritocchi al quadro regolatorio complessivo, ma non mutamenti sostanziali e tanto meno cure drastiche e (per essi) costose.
E così mentre appare sempre più forte il rischio di un avvitamento di tutte le principali economie ogni volta che qualcuno si azzarda a proporre qualche misura di qualche severità, inizia il fuoco di sbarramento della lobby bancaria. Ogni tanto, qualche politico fa una sparata minacciando misure magari importanti, ma che meriterebbero ben altra preparazione (si veda la premiata coppia Sarkozy-Merkel sulla tassazione delle transazioni finanziarie) e tutto resta come prima. Ma è ormai evidente che le banche sono una componente fondamentale dell’incapacità delle principali economie di tornare su un sentiero di crescita sostenibile e di creare occupazione.
Il problema è che la crisi finanziaria è stata provocata da un eccesso di debiti, che devono in qualche modo essere smaltiti: sia quello delle famiglie americane e britanniche (combustibile effimero della crescita del passato) sia quello di Paesi come la Grecia che sono da un pezzo in stato di insolvenza che solo i governi europei si ostinano a negare. Ma dire che c’è un eccesso di debiti pubblici e privati da smaltire significa che ci sono perdite potenziali cospicue nei bilanci delle banche. Sono state loro infatti a ingrandirsi come la rana di Esopo grazie alla bolla finanziaria. I dati della Bce ci dicono che dal 1997 al 2009 prestiti e totale di bilancio delle banche sono aumentati in tutti i Paesi europei a tassi annui doppi o tripli rispetto al prodotto lordo, con le ovvie conseguenze in termini di lauti profitti e ricompense. Ma adesso che gli anni delle vacche grasse sono alle spalle, cosa succederà alle banche? Finora, governi e autorità di vigilanza hanno puntato su una sorta di “atterraggio morbido”: speravano che la crescita dell’economia reale e un graduale rafforzamento patrimoniale delle banche avrebbero consentito di assorbire gradualmente gli eccessi del passato. Purtroppo questo scenario si sta rivelando sempre più improbabile e – come era già accaduto al Giappone negli anni Novanta – l’incertezza su qual è il valore effettivo degli attivi bancari è divenuta una componente importante del ristagno in cui siamo piombati.
Per le banche, questo è il peggiore dei mondi possibili, perché da un lato le loro azioni crollano e dunque il valore di mercato del loro capitale continua a diminuire e, dall’altro, aumenta sempre di più il costo dei fondi che devono raccogliere sul mercato. Le banche europee, che hanno fabbisogni particolarmente elevati, pagano oggi tassi sui loro debiti a lungo termine vicini a quelli dei giorni del crollo di Lehman. Solo i tassi a breve termine continuano a essere bassi, ma grazie agli aiuti eccezionali della Bce, che non possono durare in eterno. É ormai dimostrato che in queste condizioni le banche hanno incentivi perversi ad aumentare le attività rischiose e ad alimentare operazioni puramente speculative che rendono i mercati ancora più instabili.
Come ha sostenuto recentemente anche Raghuram Rajan, economista di Chicago e dunque al di sopra di sospetti dirigisti, da questa crisi usciamo solo eliminando drasticamente una parte degli eccessi accumulati, cioè adeguando il debito alla capacità di rimborso effettivo: si tratti dei mutui ipotecari delle famiglie americane o del debito pubblico dei Paesi periferici dell’Europa. Una cura drastica che trova la fiera opposizione delle banche, che preferiscono continuare a pensare che tutto potrà tornare come prima, profitti e compensi compresi. Esse contrastano anche ogni riforma strutturale che limiti gli aiuti pubblici e delle banche centrali alla componente veramente di pubblica utilità al servizio dell’economia, oggi meno della metà del bilancio di una banca. Nel Regno Unito, la sola prospettiva di una proposta in questo senso da parte di una commissione indipendente ha suscitato proteste come se si fosse attentato alle libertà costituzionali.
Ma la speranza di uscire dalla crisi in modo morbido è sempre più tenue e dunque si deve rinunciare al risanamento graduale e indolore del sistema bancario. Anzi, i richiami a soluzioni di mercato sono controproducenti perché aumentano l’incertezza. È questo il caso della richiesta di Christine Lagarde alle banche di aumentare il loro capitale o quella di usare il fondo europeo per sostenere le emissioni obbligazionarie delle banche dell’area. Il risultato è opposto a quello sperato perché l’incertezza del mercato non può che aumentare. Si sperava, aumentando i capitali bancari, di alimentare un circolo virtuoso che spingesse l’attività produttiva e la ripresa, ma non è stato così. È successo il contrario perché, come diceva Ionesco, prendete un circolo, accarezzatelo a lungo voluttuosamente: diventerà vizioso. È tempo di spezzarlo.
Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2011