Come Macbeth assediato nel castello, Silvio Berlusconi si avvita su se stesso e sulla sua storia ucciso dal paradosso. Come Macbeth assediato dai nemici, abbandonato da tutti, incapace di riconoscere la resa, reso folle dall’illusione di un prodigio che non si verifica. Quanta malinconia in questo crepuscolo, che passaggio di epoca dallo sfavillante sorriso di “L’italia è il paese che amo!”, al ghigno avvelenato di rancore di “L’Italia è un paese di merda”. Eppure, in questo salto a distanza, in questa fine lunga 17 anni, c’è la beffa del ribaltamento estremo, il segno di un’epoca che si chiude senza appello.
Prendete, allora, quella vecchia immagine velata dal tempo, e trasfigurata dalla trasformazione dei corpi: il videomessaggio in videocassetta. Fa sempre impressione vedere un Berlusconi più giovane, e quindi con molti meno capelli di quello più vecchio. Ma fa ancora impressione vedere che il mago della comunicazione che diceva di avere “il sole in tasca”, adesso è prigioniero della luna, e dei demoni della notte, del maledettismo, del tanto peggio tanto meglio, dell’estetica del kamikaze, del Muoia Sansone con tutti i filistei. Silvio-Macbeth resta sulla scena, perché la sua figura è grande, anche se è tragica. E Silvio-Macbeth si ostina a non capire che il suo tempo è finito, anche se il suo castello sta per essere espugnato: “Io non mi arrenderò – gridava nell’ultimo atto l’eroe scespiriano – dovrei baciare la terra ai piedi del mio giovane avversario ed essere bersagliato dalle maledizioni della plebaglia?”.
Esattamente come il Macbeth di Shakespeare pensava di essere salvato dall’incantesimo, così Berlusconi è convinto che l’unzione del Signore non si sia estinta, e che qualche prodigio rimetterà le cose a posto. Grida al povero Lavitola, “Giudici talebani!”, ed espone il suo orgoglio senile al pubblico pagante: “Io scopo, che cazzo vogliono da me?”.
Eppure ci sono due elementi da tenere ben presenti, anche in questo concitato crepuscolo degli dei, prima che cali definitivamente il sipario. Anche nel momento in cui perde lucidità Berlusconi resta il grande comunicatore, attento, consapevole, lucido nella scelta del mezzo e della lingua in cui esprimersi: “Mi mettano le spie dove vogliono, mi controllano le telefonate!”. Il Silvio Berlusconi che distilla la sua invettiva, insomma, è perfettamente consapevole di essere intercettato. Parla sapendo di essere ascoltato, parla sapendo che il suo pensiero finirà nelle carte di un’inchiesta, e da quei faldoni su quelle dei giornali. Il che significa che, per un altro paradosso beffardo, il Macbeth di Arcore si ritaglia il ruolo di primattore con un monologo che ha per palcoscenico il luogo metafisico delle carte giudiziarie, il teatro delle toghe che ha (inutilmente) combattuto per tutta la sua vita.
Ma questa consapevolezza significa anche un’altra cosa: Berlusconi in qualche modo vuole che il suo monologo disperato arrivi al mondo, susciti ancora una volta consenso, commuova i cuori. Saltato il senso della politica, insomma, resta quello tutto teatrale della scena.
Certo, l’effetto collaterale dei nani che lo circondano rende vana questa premonizione. Al fianco del sovrano che ulula, si articola il gergo periferico dei Lavitola e dei Tarantini: intorno al sovrano che cerca l’ultimo acuto restano i tradimenti, i raggiri, le creste sugli oboli e sui pizzi. E l’effetto indesiderato ma ineluttabile è la perdita di credibilità del leader: se Berlusconi si fa infinocchiare dall’ultimo dei rubapolli, il carisma che stregò un mondo non può più essere esercitato. Se si prova pietà per lui, non si può più temere il suo potere di capo, si rompe l’illusione incantata del re taumaturgo che fu parte fondante del suo potere, fino alla rivelazione del Satyricon dell’Olgettina.
Il tragico, in questo dramma, è continuamente corrotto dal comico, dal grottesco, dal senso di miseria e di squallore. Ma sulla scena, il sovrano del regno che un tempo fu azzurro, non rinuncia a ululare la sua invettiva perché è il ruolo che prevale sul senso di autoconservazione: “Io tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei da un’altra parte… e quindi – grida il premier nella cornetta – me ne vado da questo paese di merda di cui sono nauseato, punto e basta”.
Pensare che il destinatario di questo sfogo tragicamente cupo e spettacolare, possa essere solo l’orecchio avido di Lavitola vorrebbe dire fare un torto alla grandezza dell’uomo e al suo innato senso dello spettacolo. Berlusconi parla ai suoi intercettatori, già pensando ai giornalisti che filtreranno il suo umor nero, ai futuri lettori, parla a noi.
Davvero sembra che Berlusconi stia modellando il suo epitaffio su quello del sovrano scozzese. In fondo la fase terminale della tragedia è stata innescata dalla Finanziaria delle tasse, e dal ribaltamento della promessa delle promesse, quella di non metter mai le mani nelle tasse degli italiani. Consapevole che quello era il punto di non ritorno che mandava in cortocircuito la sua narrazione, Berlusconi quasi gridò, nella saletta stampa di Palazzo Chigi: “Ho il cuore che mi gronda sangue”. Esattamente come il Macbeth di Shakespeare gridava nella sua ultima scena madre: “Ho già l’anima troppo carica di sangue”.
Qui, alla fine del dramma, il Macbeth di Shakespeare chiude la sua avventura con la spada in mano: “Non posso fuggire. Ma come un orso combatterò fino alla fine”. E ancora: “Tento l’ultima carta. Mi copro con il mio scudo di battaglia. Dai, Mcduff, e sia dannato il primo che grida basta!”. Grande finale, in cui il liberatore Mcduff rientra impugnando la testa del sovrano e il bardo di Stratford scrive solo: Trombe. Qui mancano ancora il suggeritore per avvisare Berlusconi che è arrivato all’ultima battuta. E un liberatore armato dello scudo del centrosinistra, che lo affronti in duello nel suo castello, assediato dal ridicolo, ed espugnato dalle inchieste.
Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2011