Quasi 500mila manifestanti hanno sfilato ieri sera in 20 città israeliane, per quella che gli organizzatori avevano chiamato “La marcia del milione”. Una protesta imponente nonostante l’obiettivo numerico sia stato mancato. Il corteo più consistente ha avuto luogo a Tel Aviv. Più di 300mila hanno percorso le vie del centro fino a piazza Kikar Hamedina. A Gerusalemme in decine di migliaia si sono radunati sotto le finestre del Primo Ministro Benjamin Natanyahu.
La protesta è nata a luglio da un post su Facebook di Daphni Leef, venticinquenne studentessa di cinema. La Leef, esasperata dal costo degli affitti a Tel Aviv, invitava tutti a prendere una tenda e a piazzarla in centro città. Le prime tende, sono spuntate il 14 luglio (da qui il nome del movimento J14, July 14), in Bouleverd Rotschild, una delle arterie commerciali della città. Con le settimane la protesta è cresciuta, facendo nascere una ventina di campeggi spontanei in diverse città israeliane.
La prima manifestazione nazionale fu indetta il 23 luglio e vi parteciparono in 30mila, diventano dieci volte di più nella marcia del sabato successivo e poi 400mila il 6 agosto. Con il crescere dei numeri sono cambiate le richieste dei manifestanti: se in un primo momento si erano mobilitati per l’emergenza case, ora chiedono giustizia sociale.
Israele, dal punto di vista demografico, è un paese giovane. Ha un alto tasso di natalità, dovuto anche alla minoranza araba palestinese, circa il 20 per cento della popolazione. A protestare sono in gran parte giovani della classe media, studenti e lavoratori, con un buon livello di educazione, la parte della società che vive l’incertezza del futuro, sicura che non avrà le possibilità economiche delle passate generazioni. Le associazioni universitarie si sono ritagliate nel movimento un ruolo importante, in particolare l’Unione nazionale studentesca (National Student Union). Il suo presidente Itzik Shmuli, 31 anni, ieri sera dal palco della manifestazione a Tel Aviv ha detto: “Questa piazza è piena di nuovi israeliani, che sono pronti a morire per il proprio paese, ma spetta a Lei, Signor Primo Ministro, lasciarci vivere in questo paese”.
Il governo Netanyahu ha tentato già negli ultimi giorni di luglio di dare una risposta alle richieste dei manifestanti. Il premier, all’indomani della prima grande manifestazione di piazza, ha annullato un viaggio diplomatico in Polonia per incontrare i leader della protesta. La proposta di Netanyahu è stata un regolamento, che permette la riduzione della burocrazia per la costruzione di nuovi alloggi privati. Questo però non è bastato ai giovani israeliani che chiedono politiche sociali più ampie e non un’ulteriore apertura liberale. L’economia israeliana non è stata troppo colpita dalla crisi globale: la disoccupazione è attorno al 6 per cento, e il tasso di crescita è tra i più alti dell’Occidente. Questi fattori non bastano però a garantire alla classe media, in un paese dove il divario tra ricchi e poveri è molto accentuato, un adeguato accesso ai servizi basilari: casa, sanità ed educazione.
I portavoce del movimento hanno ribadito sin da luglio l’aspirazione apartitica delle proteste, cercando sempre di separare l’occupazione dei Territori Palestinesi, dalle politiche necessarie per sedare le proteste. Una parte dei manifestanti sottolinea però che Israele spende in sicurezza il 7 per cento del proprio Pil, a cui vanno sommati ogni anno 3 miliardi di dollari di aiuti militari statunitensi. Settembre si annuncia come un mese caldo: relazioni diplomatiche quasi interrotte con la Turchia, grandi tensioni con l’Egitto e il 20 settembre il voto alle Nazioni Unite per il riconoscimento dello Stato palestinese. Questa situazione internazionale potrebbe far passare sotto silenzio nuovi aumenti alle spese militari, sottraendo fondi a quelle spese sociali che la piazza chiede da settimane.
di Cosimo Caridi