La fontana del Moro, opera di Giacomo Della Porta, sarebbe stata sfregiata questa (non prima) volta da un solitario non definibile, tranne che nell’essere probabilmente maschio (i video risultano finora sfuocati) non tanto per i jeans quanto per la mezza pelata. La fontana in questione, per chi giustamente non lo sapesse, rinfresca da alcuni secoli la parte meridionale di piazza Navona, nel cuore barocco di Roma. Nelle ultime ore, il martellatore sarebbe stato individuato come un “seriale” (ne ha combinate altre) di cui però non si conosce il nome.
Difficile dire, di questi tempi, se la notizia interessa soltanto Roma e il suo martoriato presente. Non si può pretendere troppo, in un periodo in cui il pensiero principale di tutti noi si tiene fisso sulla possibilità che l’Italia berlusconiana provochi il crollo dell’intera Europa.
Nonostante ciò, provo a inanellare alcune riflessioni socialmente e beniculturalmente corrette.
Innanzitutto, quel che era un dubbio è diventato certezza scorrendo i suddetti sfuocati video, che comunque mostrano distintamente alcuni (non molti per la verità) passanti che costeggiano la fontana negli istanti in cui mister X compie la sua (delirante? comandata? boh) opera vandalica. A proposito, i Vandali oltrepassarono le mure di Roma nel 455 non per una generica sete di bottino ma perché non vollero riconoscere Petronio Massimo come imperatore. Torniamo a piazza Navona: nessuno di quei passanti sembra essere intervenuto per bloccare il gesto. E’ normale, secondo voi?
E però cercare di bloccare un pazzo immerso fino alle ginocchia nell’Aqua Virgo, che dal XVI secolo alimenta la fontana progettata da Della Porta, successivamente ampliata da Gian Lorenzo Bernini (ma i dettagli scultorei aggrediti sono copie ottocentesche), non è impresa da chiedere al comune cittadino, direte voi. E forse avete ragione, anche se quei passanti non sembrano fare neanche un gesto, uno strillo a braccio teso per richiamare l’attenzione (pare che uno di loro abbia poi avvertito i vigili urbani).
Restando alla domanda, sì, in questo paese devastato da quasi un ventennio di libertà intesa come “fai quell’accidenti che ti pare”, è normale. Ricordiamoci un passaggio fondamentale: la fontana di Piazza Navona, l’intera Piazza Navona, è di TUTTI, è PUBBLICA. Persino la fontana dei Fiumi, opera del Bernini, non è più sua né dei suoi eredi e nemmeno del suo committente del tempo, papa Innocenzo X. Si può dire che i diritti sono scaduti, non ci sono più. Quel che è pubblico, e cioè di tutti, qui da noi non è molto apprezzato, soprattutto da chi ha intenzione di comprarselo, può essere maltrattato, imbrattato, scarnificato, ci si può sedere sopra, magari lasciarci il bisognino del cane se capita.
Diciamo che l’impressione è in sintonia con il pensiero forte sul patrimonio culturale che così recita: in generale, a prescindere dall’episodio specifico (sperando che il tipo risulti davvero un solitario e non un emissario), il patrimonio va dato in gestione ai privati per mille ragioni, intanto per incamerare il (sicuramente poco) denaro che i privati verseranno in cambio di un affitto novantennale (per meno, non c’è l’ammortamento né il break even) e poi perché almeno i privati avranno interesse a curarne la sicurezza che la gestione pubblica non riesce più a garantire.
Ora, magari tutto ciò non succederà né oggi né domani, ma succederà.
Il patrimonio artistico, paesaggistico e culturale italiano è forse la più grande risorsa del paese ed è anche la sua identità. Gli avvoltoi che girano in tondo sopra il Colosseo, o Pompei, o gli Uffizi o il golfo di Portofino, non avrebbero spazio per volare se la comunità nazionale percepisse e sentisse come proprio, comune appunto, tutto il bendidio che il mondo ci invidia.
Gli italiani dovrebbero uscire dall’ormai ristretto ambito dell’indignazione contro la casta dei politici e indignarsi (perciò manifestare, scrivere, mandare lettere) anche per il destino riservato a quanto di più italiano esista, oltre lo slow food, oltre il vino, oltre l’Armani etc etc, vale a dire i parchi archeologici, le architetture, le sculture, gli affreschi, i paesaggi, etc etc.
Togliamo il patrimonio culturale dalle mani dei vari Bondi, Galan, dei vari assessori alla cultura e riprendiamocelo noi. Si accettano consigli, proposte e idee.
Qui ne avanzo una soltanto.
Perché i beni culturali diventino un patrimonio pubblico socialmente condiviso andrebbe riformulato il modo e il tempo che nelle scuole italiane si dedica a quella che attualmente viene definita Storia dell’arte. E’ impensabile che soltanto a 16 anni si pongano mano e testa alle opere e ai monumenti che hanno costellato la storia dell’umanità. E’ altrettanto assurdo che il valore (da cui valorizzazione, uno dei cardini del codice dei beni culturali) e la tutela del patrimonio siano considerati un aspetto tecnico-burocratico citato soltanto quando dobbiamo chiedere l’autorizzazione per il pergolato sulla terrazza (oltre il 50% del territorio è sottoposto a vincoli).
Le arti figurative, l’archeologia, la storia del paesaggio italiano e il loro rapporto con le comunità del tempo in cui si sono espressi dovrebbero essere materia fondamentale, come la lingua italiana. Soltanto da una generazione di studenti che conosce a fondo la propria identità storico-culturale può nascere la nuova percezione di quanto è importante quello che stiamo per regalare a chi non se lo merita affatto.
Non siete d’accordo?