Cinema

Americani a Venezia: poca Hollywood e molto cinema indipendente

Brandelli minimali di vita a stelle e strisce ai tempi della crisi con Shame di McQueen e Dark Horse di Solondz in Concorso. Nella sezione Orizzonti il nuovo documentario di Jonathan Demme incentrato su Carolyn Parker, l’ultima persona ad evacuare New Orleans prima dell’uragano Katrina e la prima a ritornare ad abitarci

Non per essere anticonformisti a tutti i costi, ma alla Mostra del Cinema di Venezia 2011 la rappresentazione degli Stati Uniti che emerge da tre film seguiti e apprezzati dal pubblico come Dark Horse di Todd Solondz e Shame di Steve McQueen (in Concorso) o I’m Carolyn Parker di Jonathan Demme (sezione Orizzonti), ha poco a che vedere con i lustrini hollywoodiani che a tutti i costi ci tocca sorbire per trecentosessantacinque giorni all’anno.

La visione disperata dei singoli nascosti nei loro cantucci di Manhattan, del Bronx e della prima periferia americana è da mani nei capelli. Solondz, come sempre, da Happiness o addirittura da Fuga dalla scuola media in avanti, costruisce un mondo apparentemente aderente al reale, popolato da personaggi comicamente mostruosi che estremizzano il loro disagio esistenziale tra depressione, manie nerd e conformismo culturale.

Ne è la prova il quarantenne Abe, un corpulento Jordan Gelber, protagonista di Dark Horse (letteralmente “il cavallo su cui è difficile puntare”, nell’immagine un fotogramma del film), sospeso in un limbo ovattato con mamma Mia Farrow e papà Christopher Walken a dargli amorevoli rimbrotti e grattini sulla nuca. Attenzione: se non conoscete la poetica di Solondz, non immaginativi tragedie o scene da melodrammatica. Qui siamo sul confine dell’iperrealtà. Trucco e parrucco in primis (Walken ha un riporto laccato d’antan e un pantalone fantozziano stretto sopra l’ombelico da Coppa Volpi) e messa in scena accesa sugli eccessi minimali in secondo ed ultimo luogo.

Abe viaggia sul suo hummer giallo, lavora in un’imprecisata e tranquilla ditta del padre, ha problemi con le donne e infine sogna, immagina, pontifica una doppia dimensione spaziotemporale dove tutti i personaggi che pullulano il suo mondo si trasformano in qualcosa di inaspettato. L’arrivo di Miranda (Selma Blair), tipico personaggio depresso e abulico alla Solondz, non fa che acuire questa confusione tra realtà e il suo doppio.

L’impossibilità di essere normali in un universo fatto di Diet Coke (controsenso, Abe è grasso), centri commerciali, soldatini da acquistare a cifre folli su Amazon rende Dark Horse un film sulla comica emarginazione sociale e sulla timida difficoltà ad accettarsi anormali in mezzo a questo mare di soldi, prodotti e marchi in cui forzatamente riconoscersi.

Sullo stesso tono, ma con un’accentuazione della disperazione a livello drammaturgico ben più accentuata, si situa Shame dell’inglese Steve McQueen (quello di Hunger e non il defunto protagonista di Bullitt). Il bel Michael Fassbender ritorna nudo full frontal questa volta all’interno del suo appartamento di Manhattan. Impiegato in una società che utilizza pc e nuove tecnologie per vendere chissà quali servizi, l’elegante Brandon/Fassbender è letteralmente malato di pornodipendenza, nonché di effettiva attività sessuale con prostitute o belle signorine abbordate in discoteca.

Ovviamente in mezzo tutta questa sovrabbondanza di stimoli artificiali, di consumazione onanistica, a pagamento, o casuale del sesso, lo rende incapace di leggere l’inizio di un vero rapporto d’amore con un’impiegata del suo ufficio e la criticità degli intenti suicidi della sorella. McQueen, come Solondz, riempie il quadro di tutta in serie di ammennicoli, oggetti materiali, servizi ultraveloci e moderni che dovrebbero tamponare la personale ed intima precarietà emotiva dei protagonisti. Una società americana evoluta che non sa che offrire artificiosi e generici palliativi materiali.

Invece I’m Carolyn Parker: the God, the mad and the beautiful, il documentario di Jonathan Demme nella sezione collaterale Orizzonti, sembra come offrire una speranza, una luce progressista per il futuro della nazione. Partendo da lontano, dal fondo, da quella New Orleans distrutta dall’uragano Katrina e oggi faticosamente rinata, che si staglia la figura di una donna di colore, nata negli anni quaranta, con tutto il peso della segregazione razziale alle spalle e uno spirito di giustizia sociale che le ha permesso di diventare punto di riferimento ascoltato e riconosciuto nel quartiere Lower 9th ward di New Orleans, come nel ricostruire la propria vita e il tessuto sociale connettivo della grande città del sud.

Carolyn è la chiara reincarnazione degli idoli documentati da Demme, in questa sua prolungata a magnifica parentesi di documentarista: dal Jean Dominique di The Agronomist all’ex presidente Carter di Jimmy Carter man from plains. Dal regista de Il silenzio degli innocenti, stancatosi di Hollywood, ora normale autore di ritratti personali, la ricetta di indipendenza produttiva che Solondz e McQueen, comunque lontani dalle grandi major, a loro modo stanno seguendo con i nostri migliori auguri.