Le autorità cubane hanno deciso di non rinnovare l’accredito a Mauricio Vicent, da un paio di decenni corrispondente di El País di Madrid. L’anno fatto, come da un quinquennio a questa parte accade, con molto burocratico puntiglio richiamandosi ai dettati dell’articolo 46 della Risoluzione 82, approvata nell’anno 2006 e destinata a disciplinare il lavoro dei giornalisti a Cuba (un passo avanti, o indietro, rispetto a quando, in quel di Cuba, i giornalisti venivano messi alla porta senza alcun bisogno di giustificazioni regolamentari).
L’articolo 46 afferma che l’accredito giornalistico può essere ritirato nel caso che l’interessato abbia “violato l’etica giornalistica e/o abbia mancato di obiettività nei suoi servizi”. E va da sé che le autorità cubane hanno, come d’abitudine, accuratamente evitato di mostrare il corpo di reato, con ancor più burocratico puntiglio scordandosi di precisare (anche solo con qualche velato accenno) come, dove e quando, nel corso dei suoi quasi vent’anni di lavoro nell’isola, Mauricio Vicent avesse violato l’etica giornalistica, e/o fosse venuto meno alle regole di quel (peraltro assai mobile e spesso strumentale) concetto che va sotto il nome di “obiettività”. E da sé va, anche, che, per comprendere le vere ragioni del ritiro dell’accredito a Mauricio Vicent, occorre, in realtà, rivoltare come un guanto il testo del sopraccitato articolo 46. Come molto opportunamente sottolineato da un editoriale di El País – e come inequivocabilmente rivelato da una rapida occhiata al Granma e agli altri media che, dentro l’isola, con molto servile puntualità, riflettono la “etica periodistica” che le autorità cubane hanno inteso sancire nell’articolo 46 – è infatti evidente che, se Vicent è stato “screditato”, è proprio perché le regole dell’etica giornalistica (e quelle molto più labili dell’obiettività) ha cercato di onorarle fino in fondo. Mauricio Vicent ha, semplicemente, cercato di fare il suo mestiere. E per questo è stato messo alla porta (anche se ancora non è chiaro se la cancellazione dell’accredito significhi anche l’espulsione dal paese).
Vicent non è, naturalmente, che l’ultimo d’una serie di casi, il più singolare (ed istruttivo) dei quali riguardò, nel 2007, il corrispondente del Chicago Tribune, Gary Marx. Solo due anni prima, Marx aveva conosciuto l’assai raro onore d’essere citato come esempio di “eccellenza giornalistica”, nel corso d’una conferenza stampa, nientemeno che dallo stesso comandante en jefe, Fidel Castro Ruz. Ragione dell’elogio: una serie di servizi che lo stesso Marx – nessun livello di parentela con il ben noto Karl, anche se Fidel non mancò di sottolineare la coincidenza – aveva dedicato alle molte turpitudini della comunità cubana di Miami. Poi Gary ebbe la pretesa di applicare gli stessi criteri di “eccellenza giornalistica” a Cuba. E in un batter d’occhio si ritrovò, con tutta la famiglia, su un aereo diretto a Chicago…
Niente di tragico, per carità. Niente sangue, niente morti. Solo l’infinita mediocrità d’una serie di atti amministrativi che riflettono l’ancor più infinito squallore della “filosofia dell’informazione” che, da oltre mezzo secolo, umilia gli impulsi di libertà che, pure, furono originalmente alla base della rivoluzione. Tutto fatto a puntino, codici alla mano. Tutto “pulito”. Ed assai prevedibile è che, anche in quest’occasione, qualcuno, tra i molti “benaltristi” che difendono Cuba, provveda d’acchito a rammentare a quanti si scandalizzano come, nelle stesse ore in cui, a Cuba, Vicent veniva condannato all’ostracismo, due giornaliste – vittime numero 75 e 76 d’una strage cominciata all’inizio del millennio – venissero ritrovate strangolate in un parco di Iztapalapa, nei dintorni di Città del Messico… Non v’è dubbio: ai giornalisti che lavorano nel mondo possono capitare – e di fatto assai frequentemente capitano – cose ben peggiori dell’articolo 46. E spesso queste cose capitano in località – Messico, Colombia, Honduras – geograficamente e culturalmente non troppo lontane da Cuba. Meglio, molto meglio è indiscutibilmente, per chi fa il mestiere del giornalista, incontrare il volto flaccido d’un burocrate cubano che quello (presumibilmente mascherato) d’un sicario dei cartelli del narcotraffico. Non credo, tuttavia, che questa sia una buona ragione per dimenticare tutto quello che, dietro il volto flaccido del burocrate, si nasconde. Vale a dire: la miseria che regna in un paese dove i giornalisti non muoiono (al massimo finiscono in carcere per trent’anni) . Ma dove il silenzio è diventato legge.