Sono 800mila i lavoratori delle coop che aspettano risposte dal governo: la manovra colpisce al cuore l'unico settore che crea occupazione continuativa da cinque anni. Lontane dalla piazza, 80mila imprese sociali italiane aspettano un segnale dopo il monito di Tarcisio Bertone. Ma da Sacconi, per ora, solo rassicurazioni all'orecchio del cardinale
Chiedetelo a Mario che guida il furgone per portare otto bimbi disabili per le vie di Roma mentre avanzano i cortei verso l’Arco di Costantino. Come gran parte dei 150 lavoratori della “Metacoop” di Roma, lui ha deciso di restare in servizio ieri pur avendo molto da dire al governo. C’è un’Italia che è contraria alla manovra, ai licenziamenti facili, ai tagli indiscriminati a enti locali e welfare ma non si può fermare. Non può far sentire i suoi “no”. E’ l’Italia delle cooperative che proprio la finanziaria colpisce duramente, con una riduzione delle agevolazioni che aumenta la tassazione degli utili del 10%. Il Fattoquotidiano.it ne ha parlato con i responsabili delle grandi centrali del lavoro mutualistico cui la manovra d’agosto del governo Berlusconi riserva un provvedimento “ad impresam”, scritto per le coop contro le coop, che colpisce 83mila imprese “sociali” ma risparmia ampi settori dell’economia di mercato e della rendita.
Non a caso il leader della Cgil Susanna Camusso ha parlato anche ieri di “vendetta del governo” che colpirebbe “tutti quei settori in disaccordo con l’esecutivo”. Chi siede ai vertici del mondo cooperativo usa toni più fumati ma resta in fibrillazione, in attesa di capire quali effetti sortirà la rassicurazione che il ministro del lavoro Sacconi ha sussurrato all’orecchio del cardinal Bertone che ha chiesto un trattamento migliore per il mondo cooperativo. Risposte ai tavoli istituzionali, per ora, nessuna. La politica del sussurro non ha ancora prodotto dei frutti e intanto 800mila lavoratori delle coop oggi non sono in piazza neppure a difendere se stessi. Perché tra i loro compiti c’è quello di tenere in piedi un claudicante stato sociale. “Al 90% noi svolgiamo servizi pubblici essenziali” spiega Claudia Fiaschi, presidente del Consorzio nazionale delle cooperative di solidarietà sociale Cgm che è la più grande rete nazionale di imprese sociali d’Italia (80 consorzi, mille coop, 120 organizzazioni no profit). “E non è immaginabile e praticabile interrompere il lavoro con forme di astensione perché significherebbe fermare la consegna dei pasti a malati e anziani, l’accompagnamento di persone con handicap e tutti gli altri servizi di necessità sociale che svolgiamo per conto e spesso in sostituzione dello Stato”, dice.
Per lei la natura ideologica del provvedimento non è certa. Forse è solo mancanza di conoscenza del settore. “Non sono in grado di dire se la stretta sugli utili sia un attacco ideologico al mondo cooperativo. Certo la manovra va a colpire l’istituto cooperativo stesso come strumento economico in sé, anche se è uno dei più preziosi che l’Italia possiede. E lo è non solo per il numero di addetti che coinvolge ma perché consente il protagonismo imprenditoriale di soggetti che hanno talenti professionali da spendere, intraprendenza ma non hanno alle spalle grandi capitali. Non a caso quando ci sono delle crisi economiche come da 10 anni a questa parte chi esce dal mercato del lavoro si riorganizza in forma cooperativa e prova a rimettersi in gioco con questa formula che distribuisce il rischio di impresa e abbatte il capitale iniziale”. Evidentemente, altre forme di protagonismo imprenditoriale disturbano. “Che qualcosa non funzioni lo dicono chiaramente i saldi dell’operazione”, attacca Luigi Marino, presidente di Confcooperative e portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Italiane. “Il governo non sa neppure quanto andrebbe a incassare tassando maggiormente le coop ma di sicuro l’importo è dell’ordine di 40 forse 60 milioni in una manovra che muove 45 miliardi. Così si toglie il pane a chi lavora ma si rastrellano briciole per fare cassa e con effetti decisamente contenuti”.
Se il provvedimento ha davvero una natura ideologica rischia di essere un buco nell’acqua sotto il profilo della resa per i conti pubblici ma soprattutto una mina per i beneficiari reali del mondo cooperativo. “Che non sono certo i soci, come spesso si legge su certi giornali che fanno disinformazione, perché l’istituto stesso del lavoro cooperativo prevede che i soci rinuncino ad accumulare ricchezza privata prodotta dalle loro attività per destinare quelle risorse allo sviluppo di impresa e a vantaggio della comunità e del territorio. Forse è questo il punto: un’economia in cui il profitto si sposa con l’interesse generale non si piega agli interessi particolari di nessuno, non si manipola e per questo forse non piace”.
A rimarcare il concetto è proprio la Fiaschi che è tra i massimi esperti italiani del settore: “E’ chiaro che la forma cooperativa ha una sua forma economica che non è di tipo capitalistico anzi è alternativa a quella delle società di capitali e la manovra ne mette in discussione l’utilità. E’ un’economia a due velocità il cui motore viene frenato dalla manovra che colpisce l’istituto al cuore che va a indebolire la parte patrimoniale che i soci non usano come ricchezza privata come avviene nelle aziende ma accantonato in un “fondo di riserva” indivisibile che viene destinato per statuto alla stessa attività d’impresa, nella creazione di ulteriore occupazione e nello sviluppo di beni e servizi per la collettività”. E la radiografia del mondo cooperativo conferma nella pratica il modello teorico delle coop: delle 83.000 imprese cooperative il 72% sono microimprese e che il 75% di esse è sotto la soglia minima di capitali prevista per le Srl, cioè è sotto i 10.000 euro di capitale.
Il regime fiscale vigente non è un’agevolazione, ma un sistema che permette a queste imprese di concorrere all’economia del Paese. “Noi qui siamo 150 e lavoriamo dal 1980 con servizi di prima necessità per le categorie deboli, anziani, disagiati psichici e fisici e minori”, racconta Alberto Volpicelli, uno dei soci fondatori della cooperativa sociale Metacoop di via Botero a Roma. “Abbiamo lasciato libertà di scelta ai lavoratori ma la cooperativa non sciopera perché pur ritenendo la manovra lesiva degli interessi nazionali e anche dei nostri particolari abbiamo un dovere da perseguire prima di ogni altra cosa. Così oggi come al solito in nostri soci e lavoratori hanno preso servizio, pur aderendo col pensiero alla manifestazione di protesta. Perché colpendo noi si colpiscono le famiglie, i lavoratori, i cittadini e l’economia”.
Questo è il punto. Colpendo il sistema cooperativo si colpisce l’economia del Paese in modo diretto, continuo, su almeno tre pilastri. Il primo è l’effetto diretto sulla massa delle imprese e dei lavoratori che indebolisce ancora l’economia. “Questo è l’unico settore in cui negli ultimi anni si è registrato un andamento positivo dell’occupazione. Solo nel 2010 ha registrato un +3% a fronte di una progressiva riduzione della redditività a causa della crisi. Il mondo cooperativo vale il 7,6% del Pil nazionale e da anni sta in trincea. Ora lo si vuole mortificare”, incalza il presidente di Legacoop, Giuliano Poletti. “Le agevolazioni — sostiene — non sono dei privilegi, ma sono legate a un diverso tipo di regime societario. In dieci anni ci sono stati già tre interventi di riduzione, nel 2001, 2004 e 2006”. In altre parole, le coop avrebbero già dato. Ma il taglio avrebbe anche effetti negativi sui conti pubblici per un’altra ragione che ben illustra la presidente Fiaschi: “Da anni siamo in una condizione in cui lo Stato non riesce a soddisfare i bisogni della collettività come erogatore di servizi di natura sociale. Le società cooperative suppliscono a questa prima mancanza e ancora a una seconda. Perché se ne parla poco ma chi lavora con le pubbliche amministrazioni viene pagato con ritardi crescenti che facilmente vanno dai sei mesi all’anno e mezzo. Nel frattempo le cooperative anticipano in proprio le spese ed eseguono le mansioni affidate accollandosi rischi e costi per pagamenti sempre incerti e differiti”.
Non solo. Le società cooperative nascono per vivere a lungo, anche oltre 100 anni, molto più dei venti che sono la media delle aziende a conduzione familiare. La loro continuità economica è slegata alla contingenza della leadership fondativa. “E l’Italia ha bisogno di continuità economica. E’ un contributo incalcolabile alla tenuta dello stato sociale, finché questo termine avrà una sua collocazione nel nostro diritto e nelle fondamenta costitutive dello Stato”. Già, perché c’è anche quel problemino con l’articolo 45 della Costituzione. Forse l’ultima carta da giocare a manovra approvata.