Premessa d’obbligo: l’esistenza in vita di B. e della sua banda, dove i precedenti penali fanno curriculum, fa della ridicola sospensione di Filippo Penati dal Pd una sanzione severissima, feroce, draconiana. Questa in fondo, da 17 anni e un pezzo, è la grande fortuna del centrosinistra: poter rispondere a ogni critica che “gli altri” sono molto peggio. Ma forse è venuto il momento di ignorare B. e la sua banda e di prendere a paragone i paesi civili, o almeno decenti.
Chi è Penati? Un dirigente del Pci che divenne, nell’ordine: sindaco di Sesto San Giovanni, presidente Ds della Provincia di Milano, capo della segreteria politica del segretario del Pd Bersani, candidato (trombato) del centrosinistra alla presidenza della Regione, vicepresidente del Consiglio regionale. Da dieci giorni sarebbe in carcere con i suoi coindagati se le tangenti di cui è accusato fossero state considerate dal gip di Monza, come dal pm, concussioni e non corruzioni, o se i fatti fossero avvenuti qualche anno dopo e dunque non fosse scattata la prescrizione.
Dopo essersi “autosospeso” dal Pd e da tutti gli incarichi istituzionali (ma non dal Consiglio regionale con relativo stipendio), Penati è stato deferito alla commissione di garanzia del partito, presieduta da Luigi Berlinguer, che gli ha inflitto la sanzione massima prevista dal Codice etico: la sospensione temporanea “fino al completo positivo chiarimento della propria posizione giudiziaria”. Cioè fino all’assoluzione che, chissà perché, è data per scontata. In caso di condanna, invece, scatterebbe l’espulsione, prevista anche in caso di arresto o rinvio a giudizio.
Non è proprio contemplata l’ipotesi che, per i politici italiani, è la più frequente: la prescrizione. A cui, in un partito serio o perlomeno decente, dovrebbe essere obbligatorio rinunciare, per reati gravi addebitati a uomini pubblici. Invece il Codice etico non vi fa neppure menzione: forse per non mettere in imbarazzo D’Alema, che della prescrizione si avvalse nel ‘96 per chiudere una brutta storia di finanziamento illecito. Insomma le regole di burocrazia interna sono state rispettate alla lettera. Ma sospendere un autosospeso da incarichi cui ha già rinunciato è come castigare un pesce gettandolo in mare o una talpa seppellendola sotto terra.
Ecco, c’è un aspetto che Bersani ha colpevolmente ignorato: la ricaduta esterna di questa decisione ridicola che dovrebbe chiudere un caso drammatico, enorme, che sta terremotando la base come non avveniva dal 2006, l’estate dei furbetti del quartierino. Infatti gli ultimi sondaggi, col governo in caduta libera come non mai, danno in calo pure il Pd. Anche perché il caso Penati segue a stretto giro gli scandali Tedesco (paracadutato in Senato da indagato e salvato dall’arresto) e Pronzato (arrestato per tangenti) col contorno di Morichini e fondazione Italianieuropei. Una situazione eccezionale che imporrebbe soluzioni eccezionali. Per esempio: siccome Penati è scampato alle manette solo grazie alla prescrizione, nessuno avrebbe trovato scandaloso se gli fosse stata applicata la sanzione prevista in caso di arresto: l’espulsione. In fondo, per molto meno, fu espulso il senatore Villari reo di aver accettato la presidenza della Vigilanza Rai contro il parere del partito.
Ora si spera che Bersani non ritenga chiuso il caso Penati e avvii un dibattito serio sul rapporto fra politica e affari, con una doverosa autocritica sul ruolo che lui ebbe nel presentare Gavio a Penati per un incontro riservato che precedette lo scandaloso regalo a Gavio sulle azioni dell’autostrada Serravalle coi soldi della Provincia. In caso contrario, si dovrà dare ragione a De Magistris quando osserva che un sistema ventennale, ramificato, con decine di protagonisti e di milioni in ballo come quello emerso a Sesto non poteva sfuggire al controllo dei vertici dei Ds e poi del Pd, milanesi e nazionali. Insomma, che Penati ha fatto carriera proprio perché era l’architrave di quel sistema. E per questo non può essere espulso.