Le telefonate con Lavitola e Tarantini preoccupano il premier. Che si sfoga con i suoi e grida al complotto. Il ministro della Giustizia: "Accelerare sul decreto legge". Costa del Pdl: "Potrebbe vedere la luce anche in una settimana". Alfano preferisce non commentare: "Vale quello che ha detto Palma". E aggiunge: "Berlusconi è provato, stanco, non è un robot"
Torna la legge Bavaglio. Il 20 settembre arriverà in aula. E adesso il premier pensa di farla passare con il voto di fiducia. Altro che manovra ed economia del Paese, Silvio Berlusconi ha un’unica preoccupazione: fermare il fiume di intercettazioni che lo sta travolgendo. Le telefonate di Bari con Gianpaolo Tarantini e quelle di Napoli con Valter Lavitola non devono diventare pubbliche. Le anticipazioni dell’Espresso (con il Cavaliere che suggerisce all’ex editore e direttore dell’Avanti di non tornare in Italia) hanno agitato non poco il premier. E sono state il pretesto per rilanciare la necessità della legge sulle intercettazioni. Da approvare il prima possibile, è il diktat del Cavaliere. Ma il rischio è alto. La maggioranza non è compatta (con il fronte aperto da Beppe Pisanu e con la richiesta dei dirigenti del Pdl di indire le primarie e rivedere l’organizzazione del partito) e a Montecitorio c’è il problema Lega: alla Camera, infatti, il gruppo risponde a Roberto Maroni e per lui il voto sulle intercettazioni potrebbe essere l’occasione per conquistare definitivamente la guida del Carroccio. Il ministro dell’Interno ha il sostegno di una buona parte della base del partito (che da mesi chiede di lasciare Berlusconi e che a Pontida lo ha indicato come presidente del Consiglio) ma è fortemente contrastato dal cerchio magico (capitanato da Rosy Mauro) che protegge Umberto Bossi. Alla Camera dunque Maroni potrebbe dire ai suoi di votare contro. In un colpo solo conquisterebbe l’elettorato deluso dalla gestione di Bossi (ottenendo quindi la leadership indiscussa del Carroccio) e vedrebbe crollare definitivamente l’asse con Arcore che ha ingessato il partito. Rischi che Berlusconi conosce bene. Ma il Cavaliere pensa di non avere alternative. Da Bari, dove, secondo le agenzie, il 15 settembre verrà chiusa l’inchiesta per favoreggiamento della prostituzione e associazione per delinquere finalizzata alla corruzione teme un arrivo di uno tsunami che è necessario tentare di bloccare. Il deposito di un’informativa della Guardia di finanza contenente telefonate di ogni tipo tra lui e Gianpaolo Tarantini.
Per il momento comunque, è l’anticipazione dell’Espresso a scuotere la maggioranza. Il 24 agosto Lavitola si trovava a Sofia e, venuto a sapere dell’inchiesta a suo carico, telefona al premier: “Che devo fare? Torno e chiarisco tutto?”. Il Cavaliere risponde: “Resta dove sei”. Berlusconi si è sfogato con i suoi. Ha gridato al complotto montato ad arte in un momento difficile per il Paese e per il governo, si è sfogato. Il fango, ha detto, che ancora una volta la magistratura politicizzata tenta di gettargli addosso. Per questo costringe il fidato Nicolò Ghedini a smentire le anticipazione dell’Espresso, ottenendo però il risultato opposto. “La notizia è assurda e infondata”, afferma il deputato del Pdl e legale di fiducia di Berlusconi, ma aggiunge, lamentandosi: “Continuano ad uscire dalle indagini in corso a Napoli notizie ed atti, addirittura a volte in tempo reale rispetto agli accadimenti stessi”. La dichiarazione appare poco convincente agli stessi uomini del Pdl. Così arriva il rinforzo di Fabrizio Cicchitto. Il capogruppo del Pdl sostiene che siamo “in una condizione del tutto inaccettabile, una nuova edizione del Grande Fratello – dice – per cui ogni battuta detta per telefono in conversazioni private può diventare dichiarazione pubblica e ufficiale attraverso la quale si viene impiccati”. Derubricato così a semplice battuta il consiglio di rimanere all’estero a un indagato, Cicchitto ricorda che “Berlusconi è sottoposto da tempo a forme inusitate di spionaggio e adesso è venuto il momento per tirare fuori tutto il materiale cosi accumulato, magari manipolandolo anche opportunamente”. Dunque è necessario “limitare” questa macchina del fango, ovviamente.
E se inizialmente a Palazzo Grazioli si era preso in considerazione un decreto da varare in fretta e furia nel consiglio dei ministri già lunedì prossimo, a metà pomeriggio è il ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma a indicare chiaramente la volontà dell’esecutivo. “Non ho mai sentito parlare di un decreto legge sulle intercettazioni. Alla Camera c’è da tre anni un disegno di legge, se ne può velocizzare l’esame”. Sull’uso delle intercettazioni, aggiunge, “la penso esattamente come il capo dello Stato, che recentemente ha espresso alcune riserve sull’abuso di questo strumento investigativo”. In particolare, secondo il ministro, le intercettazioni devono essere “l’extrema ratio e non devono essere possibili quelle a strascico”. Angelino Alfano rimanda a “quello che ha detto Nitto Palma” e non interviene su una materia che aveva difeso con forza. Per poi aggiungere una precisazione: “Non ho alcun patto con Maroni, esiste quello Bossi-Berlusconi”. Però, dice quasi sibillino, Berlusconi “è provato, non è mica un robot”. Avanti con il Bavaglio, dunque, poi si vedrà.
“Non è certo questo il momento di mettere il bavaglio all’informazione”, tuona il capogruppo Pd in commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti. Semmai, visto quello che sta trapelando dalle varie inchieste che vedono coinvolto il premier, sarebbe il caso di “mettere un freno al testo”, dice Federico Palomba dell’Idv. Qualsiasi decreto in materia di intercettazioni, ribatte il vicepresidente dei senatori Pd Felice Casson, sarebbe “incostituzionale” perché è uno strumento di investigazione che “non può essere confiscato alle forze di polizia e alla magistratura”. Ma il Pdl sembra aver ormai deciso compatto la strada, tanto che il capogruppo del partito in commissione Giustizia della Camera, Enrico Costa, annuncia che l’intesa è facilmente raggiungibile anche oltre la maggioranza e che il ddl potrebbe vedere la luce presto, anche “in una settimana”. Perché il testo già c’è. E’ stato licenziato dal Senato il 10 giugno del 2010 e non venne portato avanti anche perché, dissero a Palazzo Grazioli, era stato “stravolto dai finiani”.
All’epoca la maggioranza preferì rimandare. Ma in via Arenula in molti erano favorevoli a forzar la mano, ma lo stesso Berlusconi lo definì “troppo blando” dopo le modifiche che il presidente della Commissione giustizia di Montecitorio, la finiana Giulia Bongiorno, riuscì a far inserire. Eppure Se il ddl fosse diventato legge più di un anno fa non si sarebbe mai saputo nulla del caso Ruby, né tanto meno delle nuove inchieste di Napoli e Bari. Oggi così l’accelerazione. “In effetti se avessimo detto sì, all’epoca, a questo ddl forse tutto questo fango non ci sarebbe stato”. Ma l’esame del ddl potrebbe non filare liscio come auspica Costa. Per salvare “il culo flaccido” di Berlusconi (direbbe Nicole Minetti) questa volta potrebbe non bastare un voto di fiducia.