Certo, ne è passato di tempo da quando Eddie Vedder fece la sua comparsa in una posa aggressiva sulla copertina di Time, dove la scritta “All the Rage” sottolineava il fatto che fosse capace – lui e la sua band – di “spaccare il mondo”. E questo Pearl Jam Twenty, kermesse auto celebrativa, può essere davvero un nuovo inizio, anzi, lo è sicuramente perché mette in evidenza il fatto che la band di Seattle, l’ultima band di quell’Era Grunge che ne glorifica la memoria, si è scrollata via ogni cliché, anche quell’opporsi ad ogni compiacimento, come la pecora sulla copertina di Vs , album successivo a Ten, che stava a indicare la volontà dei Pearl Jam di uscire dalla gabbia rappresentata anche dal Grunge e dallo stereotipo che la band debba compiacere i media uniformandosi a tutto il resto.
Luca Villa di Pearljamonline.it – il principale sito dei Pearl Jam in Italia – ha assistito all’evento organizzato per celebrare i vent’anni di carriera che si è svolto lo scorso weekend e sono davvero orgoglioso di pubblicare il suo report sull’evento. Sul suo sito troverete inoltre l’elenco dei cinema italiani che proietteranno il prossimo 20 settembre il film Pearl Jam Twenty, tributo alla band, scritto e diretto dal regista Cameron Crowe.
Kelly Curtis, il manager della band, aveva iniziato a pensare a questo festival-evento dieci anni fa, durante una serata alcolica a Las Vegas. Superato lo scetticismo iniziale della band, poco propensa a eccessi autocelebrativi, Curtis è riuscito a coinvolgere gruppi di grande spessore come Strokes, Queens Of The Stone Age e gli altri grandi veterani di Seattle, i Mudhoney, legati indissolubilmente a doppio filo ai Pearl Jam nella ramificata genealogia musicale di Seattle risalente ai primi anni Ottanta (fu dalle ceneri dei Green River che nacquero i Mudhoney, Mother Love Bone e in seguito gli stessi Pearl Jam).
All’interno della zona espositiva collegata alla venue è stato persino allestito un Pearl Jam Museum dedicato alla memorabilia, dove i fan estasiati hanno potuto ammirare, tra le varie cose, la cassetta originale “Mamasan”, accanto ai poster delle varie ‘epoche’ e cimeli personali donati dai membri della band, tra cui facevano bella mostra t-shirt, abiti e quaderni di Vedder e gli eccentrici cappelli di Jeff Ament. Per avere un’immagine realistica della devozione che contraddistingue i fan della band, basti sapere che la durata media della coda per entrare al museo si aggirava sulle due ore.
Alle 21.30 di sabato è arrivato il momento più atteso: sulle note dell’ormai familiare intro di Philip Glass, sono comparsi i Pearl Jam, che hanno dato vita a un set forse non del tutto compatto, ma a dir poco originale, aperto da un’intensissima versione di “Release”. Vedder, la sera seguente, ha scherzato sul fatto che avrebbero potuto suonare qualunque canzone e il pubblico l’avrebbe riconsciuta all’istante. E così è stato. Per la gioia dei fans, sono state proposte in rapida successione varie ‘perle’ come “Who you are” (con Glen Hansard e Liam Finn ai cori), “In my tree”, “Deep”, “Help help”, “Education” (con Liam Finn) e “Push me pull me”. Si è anche assistito alla premiere assoluta della versione full band di “Setting forth”, tratta da “Into the wild” di Ed Vedder, e di “In the moolinght” con la partecipazione di Josh Homme. Durante “Not for you” è stato il turno di Julian Casablancas che ha duettato con Vedder. A seguire sono state proposte due canzoni presenti nella colonna sonora di “Singles”, “State of love and trust” (con Dhani Harrison, il figlio di George, alla chitarra) e “Breath”.
Il rischio di un evento del genere era l’eccesso di auto-celebrazione, ma la modestia, l’umiltà e la gratitudine dimostrati dalla band in ogni singolo momento di questo lungo weekend ha dissipato ogni dubbio. Vedder, d’altronde, ha voluto mettere le cose in chiaro da subito: “Benvenuti al PJ20! E benvenuti al 14° dei Queens of the Stone Age, al 10° degli Strokes, al 14° Liam Finn, al 23° dei Mudhoney… e poi c’è un tizio che ha cominciato nel 1977 in una band che si chiamava X… la torta è sua, Mr John Doe, benvenuti al 34° di John Doe!”. “Quando sei un ragazzo, è difficile da immaginare, pensi che la musica sia la cosa più potente dell’universo, ma gli adulti che ti circondano sono pragmatici e ti dicono che non potrai mai avere successo in una band. Trovati un bel lavoro da muratore. Noi non li abbiamo ascoltati. Voglio ringraziare il ragazzo che ero ai tempi per aver creduto nella sua passione” ha commentato Vedder dopo un’epica versione di “Better man”.
Durante il primo encore, dopo una tiratissima versione di “Reaviewmirror”, un Vedder visibilmente emozionato ha presentato Chris Cornell, il cantante dei Soundgarden. La band ha quindi eseguito, per la prima volta nella sua carriera, “Stardog champion”, cover dei Mother Love Bone, la band nella quale hanno militato Ament e Gossard prima di formare i Pearl Jam, capitanata dal defunto leader Andy Wood, grande amico dello stesso Cornell. In un toccante omaggio all’amico scomparso, Chris ha proposto assieme ai Pearl Jam un’intensa versione di “Say hello 2 heaven” (mai suonata dal vivo insieme con Gossard e company), seguita da “Reach down” (impreziosita da un incredibile trio di coristi: Vedder, Hansard e Finn) e da “Hunger strike”, l’anthem dei Temple of The Dog, che ha sicuramente fatto scendere più di una lacrima ai presenti. Lo show della prima serata si è concluso con una versione al cardiopalma di “Kick out the jams” degli MC5 suonata assieme ai Mudhoney.
Con un cielo pieno di nuvole in movimento e con il sole che finalmente splendeva nel magico scenario dell’Alpine Valley Music Theatre, la sensazione era di assistere a qualcosa di unico. Continuando con questo gioco di contaminazioni e tributi musicali reciproci che tanto piace ai membri dei Pearl Jam, Vedder è salito on stage anche durante il set di John Doe per cantare “The Golden State” e per parlare della liberazione dei West Memphis Three dopo 18 anni di carcere. Non solo, durante il set dei Queens Of The Stone Age Vedder ha suonato il cowbell e fatto i cori su “Little sister”, mentre durante il concerto degli Strokes ha nuovamente duettato con Casablancas su “Juicebox”. Ovviamente l’attesa era tutta per i Pearl Jam, che nel corso del pomeriggio avevano deciso di anticipare di mezz’ora l’inizio del loro show in quanto, come riportava un comunicato stampa, “per la band l’unico rammarico della sera precedente è di non di aver potuto suonare per più tempo”. “Wash” ha dato il via a uno di quegli show che sono già entrati a far parte della storia della band. “Given to fly” (dedicata a Dennis Rodman, presente in platea) ha emozionato tutti, così come una riuscitissima versione di Daughter con in coda la cover dei Dead Moon, “It’ Ok”. Durante “Love boat captain”, Vedder ha ricordato commosso le recenti tragedie dell’Indiana State Fair e del Pukkelpop in Belgio, lasciando intendere quanto il ricordo di Roskilde sia ancora una ferita dolorosamente viva nei loro cuori.
Se la prima serata, così piena di chicche e rarità, è stato principalmente uno show per i die-hard fan della band, questo secondo concerto ha fatto capire meglio ai presenti perché i Pearl Jam vengono considerati, a distanza di vent’anni dalla pubblicazione di “Ten”, una delle rock band più importanti di questi ultimi due decenni. Anche la seconda serata ha regalato pezzi raramente suonati negli ultimi anni come “Habit” (con Liam Finn), Leatherman, una carichissima versione di “Satan’s bed”, “Red mosquito” (sulla quale ha cantato un superlativo Casablancas) e “The new world” (cover degli X con John Doe) intervallati da pezzi di sicuro impatto emotivo come “Unthought known” (dedicata al “settimo” membro della band, il producer Brendan O’Brien), “Small town”, “Black” e “Jeremy”, che ha concluso il main set. Vedder ha ringraziato Jeff e Stone per la loro amicizia che dura da 25 anni. Un grande momento: Jeff Ament ha anche mandato un bacio “al volo” a Gossard.
Dopo due ore e mezza di musica tutti i presenti pensavano a un altro paio di canzoni prima della conclusione dello show e invece… “E’ un onore per me fare gli auguri a questa band, tenere insieme una band per vent’anni non è facile, quindi facciamo un po’ di casino per questi magnifici vent’anni” ha detto Chris Cornell prima di dare vita alla seconda reunion di questo festival dei Temple Of The Dog sull note di “Hunger strike” e di memorabili versioni di “Call me a dog” e “All night thing”, che non venivano eseguite live da oltre vent’anni.
Vedder ha quindi ringraziato Matt Cameron, riconoscendogli il grande merito di aver tenuto in piedi la band negli ultimi dieci anni e ha ricordato anche Neil Young, che li ha presi sotto la sua ala protettrice tanti anni fa. I ringraziamenti finali sono stati tutti per la ‘grande famiglia’ dei Pearl Jam, tecnici e roadie che da anni li accompagnano fedelmente, e per le grandi donne presenti nel backstage, mogli e compagne. Per concludere questa celebrazione non potevano certo mancare Alive, il loro anthem più conosciuto, “Rockin’ in the free world” di Neil Young suonata con tutti i musicisti presenti all’evento e una “Yellow ledbetter” con protagonista assoluto Mike McCready.
Non c’era davvero modo migliore per celebrare i vent’anni dei Pearl Jam. In questi due show la band ha fatto capire quanto la loro musica abbia avuto un impatto incommensurabile sui fan, sulle band da loro invitate e, in generale, sulla musica rock delle ultime due decadi. Vedere Vedder e Cornell cantare insieme i pezzi dei Temple Of The Dog è stata forse l’emozione più forte. E così come Kelly Curtis aveva iniziato a pensare a questo evento durante una nottata alcolica di dieci anni fa, i Pearl Jam sono stati in grado di ubriacarci della loro musica per un intero week end dove tutto è stato perfetto, in ogni minimo particolare. Ma, come ha detto anche Eddie Vedder, questo è solo l’inizio.