Le rivelazioni emerse chiamano in causa gli apparati statali. A uccidere il prelato mentre celebrava messa, 30 anni fa, sarebbe stato un membro della Guardia nazionale. Si conferma così la tesi dell'omicidio di stato
È vero che lo scorso anno, nel 30° anniversario della morte di Romero, il presidente di El Salvador, Mauricio Funes, si è ufficialmente scusato per il delitto. Il leader ha riconosciuto che “gli squadroni della morte hanno agito sotto la copertura, la collaborazione, l’acquiescenza o la partecipazione di agenti dello Stato”. Si trattava di gruppi armati illegali che terrorizzarono la popolazione negli anni della guerra civile (1980-1992). Illegali nella forma, legalizzati e legittimati dallo stato nella sostanza. Secondo la “Commissione per la verità” che ha indagato sui crimini commessi durante la guerra civile, “vi è abbondanza di prove” sul coinvolgimento del defunto Roberto D’Aubuisson, fondatore della “Alleanza Repubblicana Nazionalista” (ARENA), partito di destra che ha governato il Paese tra il 1989 e giugno 2009. Ora c’anche il nome dell’assassino.
Ci sono anche ben altre responsabilità e ben altri appoggi internazionali. A ricordarlo al Presidente Usa Barack Obama, che ha visitato la tomba di Romero a marzo di quest’anno, è il missionario Roy Bourgeois, che ha rivelato già molti anni fa come i killer di Romero e i membri degli squadroni fossero stati addestrati nell’Institute for Security Cooperation in Western Hemisphere, noto internazionalmente come “School of the Americas” (Soa). Il missionario ha fondato il “Soa Watch”, osservatorio non violento che chiede la chiusura del famigerato istituto Soa, che ha formato militari e paramilitari in appoggio di dittature o regimi in Argentina, Cile, Honduras, Guatemala, El Salvador, Colombia. La visita del presidente Obama alla tomba di Romero, allora, era sembrata un’occasione per far emergere la verità e per riconoscere anche le responsabilità statunitensi (almeno indirette) nei massacri del guerra civile. Così non è stato. Nessuna pubblica ammenda dal presidente Usa.
“La giustizia non è di questo mondo”, e i governanti del Salvador lo sanno bene. Lo sapevano quando hanno approvato una amnistia sui crimini commessi nella guerra civile. Nel 1993 il Parlamento del paese centroamericano, su suggerimento del presidente Alfredo Cristiani (sempre del partito Arena), ha deciso di concedere l’amnistia ai colpevoli: un colpo di spugna sulle stragi del regime, sui preti e i vescovi uccisi nelle chiese, sui contadini freddati per le strade. In barba al rapporto Onu che accusava militari e guerriglieri di essere responsabili di una lunga serie di massacri impuniti e metteva sotto accusa i militari e i giudici della Corte suprema sospettati di aver ostacolato il corso della giustizia.
Anche la giustizia ultraterrena langue, nel caso di Romero. A trent’anni dalla morte, la storia e il martirio di Romero trovano critici e oppositori anche in Vaticano, da sempre diffidente verso i preti e i vescovi latinoamericani troppo attivi nell’agone sociale e politico. Secondo alcuni resoconti, pochi mesi prima del suo martirio, il 7 maggio del 1979, Romero aveva presentato a Giovanni Paolo II un dossier sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese, ma la sua denuncia era stata accolta dal Papa con il laconico invito ad “avere relazioni migliori col suo governo”. E con Papa Ratzinger nulla è cambiato. Da anni la Chiesa, sulla spinta del mondo missionario – la parte “progressista” della comunità ecclesiale – celebra la Giornata dei missionari martiri il 24 marzo, giorno della morte di Romero. La causa di beatificazione del vescovo (l’iter per proclamarne la santità), avviata nel 1997, resta incagliata in chissà quali ostacoli. Romero è “servo di Dio” ma nonostante l’impegno del vescovo Vincenzo Paglia, suo “avvocato in terra”, la Congregazione per le cause dei santi sembra fare ancora fare orecchie da mercante.
di Sonny Evangelista