In questa calda estate “finanziaria” tutti i mezzi di comunicazione ci hanno informato che l’avvocatura è una casta perché alcuni suoi esponenti parlamentari (quelli non impegnati a difendere gli interessi del premier) hanno posto un veto netto contro una norma che avrebbe avviato la cosiddetta liberalizzazione della professione forense. Il veto ha ottenuto lo scopo e la norma è stata abortita. Spiegherò appunto che di aborto si tratta. In realtà se si legge la finanziaria bis (con l’ausilio di un interprete afgano ovviamente) si comprende che il parto è solo rimandato.
Un messaggio è stato oramai metabolizzato da tutte le persone: l’avvocatura è una casta che difende egoisticamente i propri interessi, in danno della collettività. E di questi tempi essere casta è come essere portatori di peste. S’impone dunque una riflessione più serena e obiettiva.
Partiamo dalle origini della Carta: l’avvocatura ha rilievo costituzionale. Il riferimento costituzionale più evidente è certo quello dell’articolo 24 della Costituzione inerente il diritto inviolabile di difesa, affidato appunto a una figura scientificamente formata per ricoprire il ruolo di difensore. In altri articoli è poi menzionato l’avvocato (104, 106, 135 Cost.).
L’avvocato difende e tutela gli interessi delle persone ed è garante della Costituzione e del sistema di diritto, partecipando in ciò al ruolo centrale della magistratura, in parte bilanciandone l’esercizio.
L’avvocatura ricopre dunque una veste particolarmente delicata, poiché si occupa di diritti. L’avvocatura non può quindi in alcun modo essere equiparata all’impresa, perchè la prima è fondata sui valori di autonomia e indipendenza, dignità e decoro, che infondono in genere le libere professioni, ma che per l’avvocatura ne rappresentano l’anima.
Il richiamo ossessivo in questi mesi, da parte del legislatore, di Confindustria e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (meglio nota come Antitrust, a ben vedere poco autonoma e longa manus della politica) al principio di libera concorrenza, che si vuole imporre ai singoli ordinamenti professionali, non è solo ingannevole ma è una palese menzogna.
Ciò per almeno tre motivi. Il primo è che l’avvocatura – e altrettanto la professione medica che si occupa del bene prezioso salute – non può essere liberalizzata indiscriminatamente, consentendola a chiunque si desti una mattina e si cali la toga addosso. Verrebbe meno la tutela dei diritti (ed è l’intento di una parte della classe politica) perché una cattiva tutela corrisponde a nessuna tutela. Il secondo è che, a ben vedere, la professione forense è già libera, atteso che si pretende solo un percorso scientifico rigoroso (laurea in legge; praticantato; esame di Stato) ma chiunque può accedervi. Il terzo è, come già anticipato, che l’avvocatura e la professione medica non sono certamente imprese. Analogamente ad altre libere professioni.
Non v’è dubbio alcuno di come le libere professioni debbano essere riformate, al pari degli Ordini che ne garantiscono il controllo, ma ciò salvaguardando i principi fondamentali di essi e preservandoli appunto dalla mercificazione e dalla perdita di autonomia e indipendenza.
Quanto all’avvocatura, giova ricordare come giaccia (tumulata, nonostante le reiterate promesse dell’allora guardasigilli Alfano, evidentemente occupato su altri fronti) alle Camere da un anno e mezzo la riforma dell’ordinamento forense, consegnata dall’avvocatura unita al legislatore. Come possa cambiare in meglio l’avvocatura se il legislatore ignori tale riforma (che contiene rilevanti novità) non è dato sapere. Che debba cambiare la professione forense non v’è dubbio alcuno: oggi gli esami di Stato non sono tenuti da una sola commissione ma da tante secondo la ripartizione (geografica) per Corte d’Appello e i risultati variano sorprendentemente; gli Ordini non esercitano costantemente e omogeneamente il potere disciplinare; la formazione continua deve essere reale e non virtuale. Solo per dirne alcuni, di problemi.
Tuttavia la liberalizzazione, giustamente respinta al mittente dall’avvocatura (che non si è erta come casta ma bensì a difesa dei propri principi, nell’interesse precipuo anche dei cittadini) e dalle libere professioni in genere, è un inganno malevolo. Perlomeno nel caso della pretesa “liberalizzazione dell’avvocatura” lo scopo non è (ma guarda caso…) la maggiore tutela economica dei cittadini (la liberalizzazione, si sa, vuole incidere sull’abbassamento dei prezzi) ma la maggiore tutela di Confindustria che vuole raggiungere due obiettivi importanti: spendere assai meno in parcelle e possibilmente assorbire l’avvocatura in banche e assicurazioni rendendo dipendenti (e dunque non più liberi e autonomi) i liberi professionisti.
Il legislatore è ancor più ingannevole perché getta fumo negli occhi dei suoi elettori con la pretesa di liberalizzare le “libere professioni” (e i mass media raccolgono servilmente o, se liberi, poco criticamente) così da nascondere ancora oggi le omissioni nel garantire un libero mercato nei settori fondamentali e strategici (energia; trasporto ferroviario; banche; posta etc.) dell’economia italiana.
L’avvocatura non è dunque una casta, bensì è solo un costo – per Confindustria – da ridurre e possibilmente da trasformare in utili. Credetemi, questa è la pura, triste, squallida verità.
Vi fareste mai difendere da un avvocato privo di formazione scientifica e privo di autonomia, magari inventatosi tale il giorno prima? Vi fareste mai curare da un medico privo di formazione scientifica, che ha scoperto tale vocazione improvvisamente? Personalmente no.