Con le ultime notizie dalla Grecia è ripartita la crisi del debito degli Stati. C’è chi pensa che l’euro sia una coperta troppo corta. Non è così: i costi del break up lo rendono una strada a senso unico. E allora bisogna mettersi con pazienza e poco alla volta a rifondare “alla tedesca” il funzionamento dell’Unione Europea, non solo quella monetaria. Dopo aver salvato la Grecia: altrimenti non ci sarà nessuna Unione da rifondare.
di Francesco Daveri* (fonte: www.lavoce.info)
La saga della crisi dei debiti degli Stati è entrata nella sua fase finale. Ecco qui riassunte l’ultima puntata e quelle precedenti. Alla fine, i possibili finali e una previsione: se oggi non si salva – ancora e sgradevolmente – la Grecia, non ci sarà nessuna Unione da rifondare su nuove basi.
La fase più recente della saga dei debiti sovrani
La fase più recente della saga è cominciata ancora una volta con le notizie in arrivo dalla Grecia. Parlando con gli imprenditori riuniti a Salonicco, il ministro della Finanze Evangelos Venizelos ha annunciato che l’economia greca nel 2011 vedrà il proprio Pil ridursi per più del 5 per cento. La recessione greca sarà cioè probabilmente ben più aspra di quanto previsto (o sperato) dal governo greco e dalla troika composta dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale. Le misure di austerità introdotte nel 2010 (aumento dell’Iva e tagli agli stipendi dei lavoratori pubblici e alle pensioni) stanno producendo il risultato atteso di ridurre la spesa pubblica. Ma assieme a questo effetto sta arrivando l’effetto recessivo delle misure. Il guaio è che una recessione più severa si mangia a catena le entrate fiscali e porta con sé nel baratro gli obiettivi di riduzione del deficit concordati con la troika come condizione per continuare a ricevere gli aiuti che danno ossigeno all’economia greca. E allora ecco arrivare l’ennesima correzione: con i primi mesi del 2012, a essere spremuti saranno questa volta i proprietari di casa, per quattro euro al metro quadro. Ma se la recessione peggiora ci vorranno ancora più aiuti per evitare il default del governo greco. Evento da non dare per scontato in presenza di crescente insoddisfazione dell’elettorato tedesco e dei vincoli a ulteriori decisioni che comportano oneri per il contribuente posti dalla Corte costituzionale.
E se la crisi greca si avvita ancora una volta, ecco un’altra buona ragione per l’ulteriore caduta dei valori di borsa delle banche francesi. Bnp Paribas, Societé Generale e Credit Agricole hanno già perso circa il 50 per cento del loro valore tra giugno e metà settembre 2011. I loro attivi sono ancora troppo esposti nei confronti del debito pubblico greco. A seguire, sono arrivate puntuali il declassamento del rating di due di esse da parte di Moody’s assieme alla dichiarazione di supporto del governo francese nei confronti delle tre banche e – possiamo scommetterci – con il solito grido di “dalli all’untore” nei confronti delle società di rating. Fino alla prossima volta.
Le puntate precedenti
Con il procedere delle varie puntate della saga, la sensazione che l’euro sia (o sia diventata) una coperta troppo corta è divenuta palpabile. Con il senno di poi, oggi sembrerebbe facile concludere che l’idea di fare un’unione monetaria – una grande unione monetaria – tra paesi molto diversi, dotati di differenti istituzioni nazionali di supervisione dell’attività bancaria, senza un solido meccanismo di aiuti di emergenza e senza un insieme di regole fiscali più credibile di quello sancito nel Trattato di Maastricht sia stata – diciamolo – un imprudente salto nel buio. Un esempio dei danni che l’ottimismo della volontà può arrecare quando lo si fa prevalere sul pessimismo della ragione.
Sull’altro lato dell’oceano Atlantico, peraltro, gli americani ci avevano avvertiti che l’euro era uno strano animale. Ci avevano detto che non si era mai vista un’unione monetaria tra paesi che mettevano l’autonomia politica nazionale in cima alle loro agende politiche. Abbiamo pensato che avessero paura di perdere il monopolio del dollaro come valuta di riserva nelle transazioni internazionali, la fonte ultima di finanziamento del loro tenore di vita. Comunque, per dieci anni, a dispetto dello scetticismo americano, l’euro ci ha portato almeno un beneficio, molto evidente nella figura riportata in alto: la riduzione e la convergenza dei tassi di interesse e un forte impulso verso una maggiore disponibilità di credito in tutta Europa.
L’occasione è stata però largamente sprecata dai singoli Stati: i governi si sono goduti il bonus del minor costo del debito e hanno continuato a fare quello che facevano prima della corsa verso l’euro. Hanno creduto che l’euro – quasi come la caduta del Muro di Berlino – fosse la “Fine della Storia”. E invece era solo l’inizio, l’inizio di una nuova fase in cui tra i paesi europei cominciava la gara delle riforme: senza lo strumento del cambio solo chi fa le riforme necessarie a mantenere la competitività riesce a vincere sui mercati europei e mondiali. L’euro ha quindi finito per accrescere le differenze tra i paesi dell’Unione, tra quelli che stanno in piedi con le loro gambe perché hanno fatto le riforme e quelli che non ce la fanno perché non hanno adattato le loro istituzioni a una società invecchiata, ma globale. I primi crescono in modo equilibrato, gli altri no: spagnoli, irlandesi e greci sono cresciuti ma alimentando gravi squilibri, italiani e portoghesi non sono cresciuti affatto.
A far scoppiare la bomba è stata la crisi finanziaria del 2008-09. La crisi – o meglio le risposte alla crisi – hanno provocato un rapido peggioramento dei conti pubblici anche nei paesi rigoristi dal punto di vista fiscale, il che ha accresciuto l’attenzione dei contribuenti verso il “bang for the buck”, verso i ritorni e i costi sociali della spesa pubblica. Fino a che la spesa pubblica è inefficiente ma non provoca un insopportabile fardello fiscale, spiegare a un tedesco che occorre salvare un paese come la Grecia per consentire che l’unione monetaria continui a funzionare potrebbe non essere troppo difficile per un buon politico (Helmut Kohl riuscì a far digerire ai suoi concittadini un inverosimile cambio uno a uno tra il marco occidentale e quello orientale). Ma le cose si complicano quando il debito pubblico aumenta rapidamente (dal 65 per cento del Pil del 2007 all’84 per cento del 2011 in Germania). E così l’opinione pubblica tedesca ha cominciato a pensare seriamente all’ipotesi di sbarazzarsi dei “deficit sinner” – dei peccatori del deficit, a cominciare dai greci ma per arrivare forse agli italiani – come ci hanno fatto capire le dimissioni del banchiere centrale tedesco Jurgen Stark dal consiglio della Bce.
Salvare la Grecia e rifondare l’Unione
Il problema o la fortuna, a seconda dei punti di vista, è che l’euro è una strada a senso unico. Chi ha provato a fare i conti del costo del break up (lo hanno per ora fatto in modo un po’ sbrigativo tre economisti di Ubs) ha tirato fuori numeri da capogiro come 6-8 mila euro per ogni tedesco solo nel primo anno, il 15-20 per cento del Pil tedesco. Al di là dei numeri precisi, conta la logica del ragionamento: già nella fase di transizione verso la nuova situazione, si verificherebbero massicce fughe di capitale verso la Germania e gravi insolvenze nei paesi più deboli dell’area euro orfana della Germania, con un drammatico apprezzamento del neo-marco rispetto all’euro. Implicazioni più ovvie per i tedeschi? Almeno due: le aziende tedesche non esporterebbero più frigoriferi e automobili nel resto dell’Europa e nel mondo e le banche tedesche si troverebbero piene di titoli del debito denominati nella valuta sbagliata (l’euro). Se dunque fosse la Germania a lasciare l’euro, ogni cittadino tedesco si troverebbe a sborsare un sacco di soldi per ricapitalizzare il sistema bancario e per salvare la Miele e la Volkswagen.
Che cosa rimane ai tedeschi e all’Europa allora? Rimane una strada obbligata: quella di mettersi con pazienza e poco alla volta a rifondare “alla tedesca” il funzionamento dell’Unione Europea, non solo quella monetaria. Se riuscirà a ottenere da tutti i partecipanti all’Unione le riforme desiderate, a quel punto diventerà irrilevante la nazionalità di chi sarà a capo dell’Unione riformata e le resistenze dei contribuenti tedeschi potranno essere superate e la Costituzione tedesca opportunamente emendata. Ma è bene tenere a mente che tutto ciò non potrà avvenire prima di aver spento l’incendio, cioè avendo prima – subito – garantito un rinnovo di aiuti pluriennali che eviti alla Grecia la prosecuzione della strategia di lento suicidio economico a cui sta andando incontro nell’attuazione del suo programma di aggiustamento fiscale. Se non si salva la Grecia oggi, non ci sarà nessun trattato europeo da riscrivere domani.
*E’ professore ordinario di Politica Economica presso l’Università di Parma. Insegna anche nel programma MBA della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi. Ha collaborato con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e la Commissione Europea. Scrive sul Sole 24 Ore ed è membro del Comitato di redazione de LaVoce.info. La sua attività di ricerca riguarda soprattutto la relazione tra innovazione, produttività e crescita. Oltre a numerosi articoli su riviste internazionali e italiane, ha scritto Centomila punture di spillo con Carlo De Benedetti e Federico Rampini (Mondadori, 2008), e Innovazione cercasi (Laterza, 2006).
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Lavoce.info
Watchdog della politica economica italiana
Economia & Lobby - 14 Settembre 2011
Come finirà la saga dei debiti sovrani
di Francesco Daveri* (fonte: www.lavoce.info)
La saga della crisi dei debiti degli Stati è entrata nella sua fase finale. Ecco qui riassunte l’ultima puntata e quelle precedenti. Alla fine, i possibili finali e una previsione: se oggi non si salva – ancora e sgradevolmente – la Grecia, non ci sarà nessuna Unione da rifondare su nuove basi.
La fase più recente della saga dei debiti sovrani
La fase più recente della saga è cominciata ancora una volta con le notizie in arrivo dalla Grecia. Parlando con gli imprenditori riuniti a Salonicco, il ministro della Finanze Evangelos Venizelos ha annunciato che l’economia greca nel 2011 vedrà il proprio Pil ridursi per più del 5 per cento. La recessione greca sarà cioè probabilmente ben più aspra di quanto previsto (o sperato) dal governo greco e dalla troika composta dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale. Le misure di austerità introdotte nel 2010 (aumento dell’Iva e tagli agli stipendi dei lavoratori pubblici e alle pensioni) stanno producendo il risultato atteso di ridurre la spesa pubblica. Ma assieme a questo effetto sta arrivando l’effetto recessivo delle misure. Il guaio è che una recessione più severa si mangia a catena le entrate fiscali e porta con sé nel baratro gli obiettivi di riduzione del deficit concordati con la troika come condizione per continuare a ricevere gli aiuti che danno ossigeno all’economia greca. E allora ecco arrivare l’ennesima correzione: con i primi mesi del 2012, a essere spremuti saranno questa volta i proprietari di casa, per quattro euro al metro quadro. Ma se la recessione peggiora ci vorranno ancora più aiuti per evitare il default del governo greco. Evento da non dare per scontato in presenza di crescente insoddisfazione dell’elettorato tedesco e dei vincoli a ulteriori decisioni che comportano oneri per il contribuente posti dalla Corte costituzionale.
E se la crisi greca si avvita ancora una volta, ecco un’altra buona ragione per l’ulteriore caduta dei valori di borsa delle banche francesi. Bnp Paribas, Societé Generale e Credit Agricole hanno già perso circa il 50 per cento del loro valore tra giugno e metà settembre 2011. I loro attivi sono ancora troppo esposti nei confronti del debito pubblico greco. A seguire, sono arrivate puntuali il declassamento del rating di due di esse da parte di Moody’s assieme alla dichiarazione di supporto del governo francese nei confronti delle tre banche e – possiamo scommetterci – con il solito grido di “dalli all’untore” nei confronti delle società di rating. Fino alla prossima volta.
Le puntate precedenti
Con il procedere delle varie puntate della saga, la sensazione che l’euro sia (o sia diventata) una coperta troppo corta è divenuta palpabile. Con il senno di poi, oggi sembrerebbe facile concludere che l’idea di fare un’unione monetaria – una grande unione monetaria – tra paesi molto diversi, dotati di differenti istituzioni nazionali di supervisione dell’attività bancaria, senza un solido meccanismo di aiuti di emergenza e senza un insieme di regole fiscali più credibile di quello sancito nel Trattato di Maastricht sia stata – diciamolo – un imprudente salto nel buio. Un esempio dei danni che l’ottimismo della volontà può arrecare quando lo si fa prevalere sul pessimismo della ragione.
Sull’altro lato dell’oceano Atlantico, peraltro, gli americani ci avevano avvertiti che l’euro era uno strano animale. Ci avevano detto che non si era mai vista un’unione monetaria tra paesi che mettevano l’autonomia politica nazionale in cima alle loro agende politiche. Abbiamo pensato che avessero paura di perdere il monopolio del dollaro come valuta di riserva nelle transazioni internazionali, la fonte ultima di finanziamento del loro tenore di vita. Comunque, per dieci anni, a dispetto dello scetticismo americano, l’euro ci ha portato almeno un beneficio, molto evidente nella figura riportata in alto: la riduzione e la convergenza dei tassi di interesse e un forte impulso verso una maggiore disponibilità di credito in tutta Europa.
L’occasione è stata però largamente sprecata dai singoli Stati: i governi si sono goduti il bonus del minor costo del debito e hanno continuato a fare quello che facevano prima della corsa verso l’euro. Hanno creduto che l’euro – quasi come la caduta del Muro di Berlino – fosse la “Fine della Storia”. E invece era solo l’inizio, l’inizio di una nuova fase in cui tra i paesi europei cominciava la gara delle riforme: senza lo strumento del cambio solo chi fa le riforme necessarie a mantenere la competitività riesce a vincere sui mercati europei e mondiali. L’euro ha quindi finito per accrescere le differenze tra i paesi dell’Unione, tra quelli che stanno in piedi con le loro gambe perché hanno fatto le riforme e quelli che non ce la fanno perché non hanno adattato le loro istituzioni a una società invecchiata, ma globale. I primi crescono in modo equilibrato, gli altri no: spagnoli, irlandesi e greci sono cresciuti ma alimentando gravi squilibri, italiani e portoghesi non sono cresciuti affatto.
A far scoppiare la bomba è stata la crisi finanziaria del 2008-09. La crisi – o meglio le risposte alla crisi – hanno provocato un rapido peggioramento dei conti pubblici anche nei paesi rigoristi dal punto di vista fiscale, il che ha accresciuto l’attenzione dei contribuenti verso il “bang for the buck”, verso i ritorni e i costi sociali della spesa pubblica. Fino a che la spesa pubblica è inefficiente ma non provoca un insopportabile fardello fiscale, spiegare a un tedesco che occorre salvare un paese come la Grecia per consentire che l’unione monetaria continui a funzionare potrebbe non essere troppo difficile per un buon politico (Helmut Kohl riuscì a far digerire ai suoi concittadini un inverosimile cambio uno a uno tra il marco occidentale e quello orientale). Ma le cose si complicano quando il debito pubblico aumenta rapidamente (dal 65 per cento del Pil del 2007 all’84 per cento del 2011 in Germania). E così l’opinione pubblica tedesca ha cominciato a pensare seriamente all’ipotesi di sbarazzarsi dei “deficit sinner” – dei peccatori del deficit, a cominciare dai greci ma per arrivare forse agli italiani – come ci hanno fatto capire le dimissioni del banchiere centrale tedesco Jurgen Stark dal consiglio della Bce.
Salvare la Grecia e rifondare l’Unione
Il problema o la fortuna, a seconda dei punti di vista, è che l’euro è una strada a senso unico. Chi ha provato a fare i conti del costo del break up (lo hanno per ora fatto in modo un po’ sbrigativo tre economisti di Ubs) ha tirato fuori numeri da capogiro come 6-8 mila euro per ogni tedesco solo nel primo anno, il 15-20 per cento del Pil tedesco. Al di là dei numeri precisi, conta la logica del ragionamento: già nella fase di transizione verso la nuova situazione, si verificherebbero massicce fughe di capitale verso la Germania e gravi insolvenze nei paesi più deboli dell’area euro orfana della Germania, con un drammatico apprezzamento del neo-marco rispetto all’euro. Implicazioni più ovvie per i tedeschi? Almeno due: le aziende tedesche non esporterebbero più frigoriferi e automobili nel resto dell’Europa e nel mondo e le banche tedesche si troverebbero piene di titoli del debito denominati nella valuta sbagliata (l’euro). Se dunque fosse la Germania a lasciare l’euro, ogni cittadino tedesco si troverebbe a sborsare un sacco di soldi per ricapitalizzare il sistema bancario e per salvare la Miele e la Volkswagen.
Che cosa rimane ai tedeschi e all’Europa allora? Rimane una strada obbligata: quella di mettersi con pazienza e poco alla volta a rifondare “alla tedesca” il funzionamento dell’Unione Europea, non solo quella monetaria. Se riuscirà a ottenere da tutti i partecipanti all’Unione le riforme desiderate, a quel punto diventerà irrilevante la nazionalità di chi sarà a capo dell’Unione riformata e le resistenze dei contribuenti tedeschi potranno essere superate e la Costituzione tedesca opportunamente emendata. Ma è bene tenere a mente che tutto ciò non potrà avvenire prima di aver spento l’incendio, cioè avendo prima – subito – garantito un rinnovo di aiuti pluriennali che eviti alla Grecia la prosecuzione della strategia di lento suicidio economico a cui sta andando incontro nell’attuazione del suo programma di aggiustamento fiscale. Se non si salva la Grecia oggi, non ci sarà nessun trattato europeo da riscrivere domani.
*E’ professore ordinario di Politica Economica presso l’Università di Parma. Insegna anche nel programma MBA della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi. Ha collaborato con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e la Commissione Europea. Scrive sul Sole 24 Ore ed è membro del Comitato di redazione de LaVoce.info. La sua attività di ricerca riguarda soprattutto la relazione tra innovazione, produttività e crescita. Oltre a numerosi articoli su riviste internazionali e italiane, ha scritto Centomila punture di spillo con Carlo De Benedetti e Federico Rampini (Mondadori, 2008), e Innovazione cercasi (Laterza, 2006).
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Milano, 17 mar. (Adnkronos Salute) - Bergamo, 18 marzo 2020: una lunga colonna di camion militari sfila nella notte. Sono una decina in una città spettrale, le strade svuotate dal lockdown decretato ormai in tutta Italia per provare ad arginare i contagi. A bordo di ciascun veicolo ci sono le bare delle vittime di un virus prima di allora sconosciuto, Sars-CoV-2, in uscita dal Cimitero monumentale.
Quell'immagine - dalla città divenuta uno degli epicentri della prima, tragica ondata di Covid - farà il giro del mondo diventando uno dei simboli iconici della pandemia. Il convoglio imboccava la circonvallazione direzione autostrada, per raggiungere le città italiane che in quei giorni drammatici accettarono di accogliere i defunti destinati alla cremazione. Gli impianti orobici non bastavano più, i morti erano troppi. Sono passati 5 anni da quegli scatti che hanno sconvolto l'Italia, un anniversario tondo che si celebrerà domani. Perché il 18 marzo, il giorno delle bare di Bergamo, è diventato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
La ricorrenza, istituita il 17 marzo 2021, verrà onorata anche quest'anno. I vescovi della regione hanno annunciato che "le campane di tutti i campanili della Lombardia" suoneranno "a lutto alle 12 di martedì 18 marzo" per "invitare al ricordo, alla preghiera e alla speranza". "A 5 anni dalla fase più acuta della pandemia continuiamo a pregare e a invitare a pregare per i morti e per le famiglie", e "perché tutti possiamo trovare buone ragioni per superare la sofferenza senza dimenticare la lezione di quella tragedia". A Bergamo il punto di partenza delle celebrazioni previste per domani sarà sempre lo stesso: il Cimitero Monumentale, la chiesa di Ognissanti. Si torna dove partirono i camion, per non dimenticare. Esattamente 2 mesi fa, il Comune si era ritrovato a dover precisare numeri e destinazioni di quei veicoli militari con il loro triste carico, ferita mai chiusa, per sgombrare il campo da qualunque eventuale revisione storica. I camion che quel 18 marzo 2020 partirono dal cimitero di Bergamo furono 8 "con 73 persone, divisi in tre carovane: una verso Bologna con 34 defunti, una verso Modena con 31 defunti e una a Varese con 8 defunti".
E la cerimonia dei 5 anni, alla quale sarà presente il ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, sarà ispirata proprio al tema della memoria e a quello della 'scoperta'. La memoria, ha spiegato nei giorni scorsi l'amministrazione comunale di Bergamo, "come atto necessario per onorare e rispettare chi non c'è più e quanto vissuto". La scoperta "come necessità di rielaborare, in una dimensione di comunità la più ampia possibile, l'esperienza collettiva e individuale che il Covid ha rappresentato".
Quest'anno è stato progettato un percorso che attraversa "tre luoghi particolarmente significativi per la città": oltre al Cimitero monumentale, Palazzo Frizzoni che ospiterà il racconto dei cittadini con le testimonianze raccolte in un podcast e il Bosco della Memoria (Parco della Trucca) che esalterà "le parole delle giovani generazioni attraverso un'azione di memoria". La Chiesa di Ognissanti sarà svuotata dai banchi "per rievocare la stessa situazione che nel 2020 la vide trasformata in una camera mortuaria". Installazioni, mostre fotografiche, momenti di ascolto e partecipazione attiva, sono le iniziative scelte per ricordare. Perché la memoria, come evidenziato nella presentazione della Giornata, "è la base per ricostruire".
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Vogliamo il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica e non lo delegheremo alla Francia e alla Gran Bretagna". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo. "Per avere i granai pieni -ha aggiunto- bisogna avere gli arsenali pieni, la difesa è la premessa della libertà e della democrazia".
Bruxelles, 18 mar. - (Adnkronos) - Le sedici aziende dell’Alleanza “Value of Beauty”, lanciata a febbraio 2024, hanno presentato a Bruxelles uno studio commissionato a Oxford Economics sull’impatto socioeconomico del settore. Il Gruppo L’Oréal, Kiko Milano, Beiersdorf, Iff, e altri grandi marchi dell’industria vogliono inserirsi nello spiraglio aperto dalla Commissione europea per favorire la semplificazione normativa in vari ambiti, e per chiedere un dialogo strategico sul futuro del settore, come già successo per agricoltura e automotive.
Il settore guarda con attenzione alle proposte su una legge europea vincolante per le biotecnologie e alla strategia per la bioeconomia, che la Commissione si impegna a presentare entro la fine dell’anno. Ma guarda con attenzione anche agli sviluppi nelle relazioni commerciali in Occidente alla luce della recente entrata in vigore dei dazi di Washington sull’import dall’Unione europea.
“Cinque delle sette più grandi aziende del settore hanno la loro sede nell’Ue”, ha sottolineato l’amministratore delegato del Gruppo L’Oréal, Nicolas Hieronimus.
A Bruxelles i sedici membri dell’Alleanza chiedono politiche per la produzione sostenibile di ingredienti e la formazione di personale per sbloccare il potenziale del settore. Un aspetto legato, secondo l’amministratore delegato di Kiko Milano, Simone Dominici, all’impatto positivo che la cura del corpo e dell’estetica ha sull’autostima e sulla salute mentale dei consumatori. Aspetti non trascurati dallo studio dell’Oxford Economics presentato all’ombra dei palazzi delle istituzioni europee. Il rapporto mostra che la spesa dei consumatori nell’Ue per i prodotti di bellezza e cura della persona ha superato i 180 miliardi di euro e dato lavoro a oltre tre milioni di persone, un numero che supera il totale della forza lavoro presente in 13 Stati membri dell’Ue. Troppi anche gli oneri per l'industria della cosmetica che rendono necessaria una revisione della direttiva sulle acque reflue. Forte dei 496 milioni di euro generati ogni giorno e dei 3,2 milioni di posti di lavoro, la cordata dei grandi nomi dell’industria della bellezza chiede che tutti i settori che contribuiscono ai microinquinanti nelle acque siano ritenuti responsabili, in linea con il principio “chi inquina paga”.
I riflettori dell’Alleanza, che guarda anche agli interessi di tutti gli attori della filiera - dagli agricoltori ai vetrai, importanti nella catena del valore quanto le case di fragranze - sono rivolti in primis sull’attesa revisione del regolamento Reach (Regulation on the registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), che regolamenta le sostanze chimiche autorizzate e soggette a restrizione nell’Unione europea. L’Alleanza chiede che a questa iniziativa, annunciata nel 2020 come parte del pacchetto sul Green deal, si aggiunga anche una revisione del regolamento sui prodotti cosmetici.
L’appello ha come obiettivo la riduzione degli oneri amministrativi e lo stimolo all'innovazione, senza sacrificare l’approccio basato sul rischio per la salute e la responsabilità per la tutela dell’ambiente. Trasmette ottimismo l’iniziativa della Commissione di considerare delle esenzioni per alcune imprese colpite dalla direttiva della diligenza dovuta che imponeva oneri considerati sproporzionati alle piccole e medie imprese, la colonna portante del settore.
“Vogliamo impiegare più tempo alla sostenibilità, piuttosto che alla rendicontazione amministrativa”, è stato l’appello degli amministratori delegati durante la conferenza stampa che ha preceduto gli incontri istituzionali al Parlamento europeo, tra cui quello con la presidente dell’istituzione, Roberta Metsola. Lo studio presentato dimostra che una parte consistente della cura per la sostenibilità ambientale passa anche dalla cosmetica. L’Oréal ha già annunciato che entro il 2030 il 100% della plastica utilizzata nelle confezioni sarà ottenuta da fonti riciclate o bio-based.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Mandare soldati in Ucraina mentre ci sono i bombardamenti è una pazzia e l'Italia non farà questa scelta". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Gli inglesi sono usciti dall'Europa e adesso ci convocano una volta a settimana, facessero domanda per rientrare nell'Unione europea". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Dei Servizi segreti non si parla nell'Autogrill, si parla nel Copasir, io all'Autogrill ci vado a comprare il panino". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Da oggi sono autorizzato a dire che la Meloni non smentisce l'utilizzo di intercettazioni preventive nei confronti di un giornalista che attacca il Governo. È una cosa enorme, che ha a che fare con la dignità delle Istituzioni. Se non vi rendete conto che su questa cosa si gioca il futuro della libertà, allora sappiate che c'è qualcuno che lascia agli atti questa frase, perchè quando intercetteranno voi, in modo illegittimo, con i trojan illegali, saremo comunque dalla vostra parte per difendere il vostro diritto di cittadini, mentre voi oggi vi state voltando dal'altra parte". Lo ha affermato Matteo Renzi nella sua dichiarazione di voto sulle risoluzioni sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
"Giorgia Meloni va al Consiglio europeo senza una linea, senza sapere da che parte stare, senza aver avuto il coraggio di rispondere a quella frase che lei stessa aveva detto: 'come diceva Pericle la felicità consiste nella libertà e la libertà dipende dal coraggio'. Se la felicità e la libertà dipendono dal coraggio, Giorgia Meloni -ha concluso l'ex premier- non è felice, non è libera".