Quando si è piccoli lo si usa spesso. La cosa è tollerata. Fino a un certo punto però. Se si insiste troppo c’è sempre il rischio di qualche rappresaglia, anche fisica. Crescendo viene inculcato che non importa la frequenza, comunque non è elegante, gentile, educato, opportuno dirlo. Passata l’adolescenza non ce n’è più bisogno: si sa già tutto.

Il soggetto di questa introduzione? Semplice: Perché. Proprio così, l’avverbio “perché”. Attenti all’accento sulla e. Ve ne siete accorti? Non lo si usa quasi più. Prendete un quotidiano, non importa quale e cercate quante volte viene domandato “Perché”. Non importa il tema: politica, economia, società, cultura. Fate voi. Non lo si trova. Nemmeno nella sua forma più elegante e subdola: “Come mai?”.

Non ci si chiede più il perché delle cose. Nemmeno quelle più semplici. Perché il caffè si chiama caffe? Perché esiste un proverbio senza senso come: “Stretta è la foglia, larga è la via, dite la vostra che ho detto la mia”. Perché un rasoio taglia? Perché stiamo vivendo una crisi economica? Non si gioca più al gioco del perché. Provate a chiedere cinque volte di seguito perché relativamente a un determinato soggetto. Quasi impossibile sfuggire all’impulso di uccidere il petulante soggetto che interroga perché non si trovano più risposte.

Senza perché si vive meglio. Tutto è scontato, accettato senza domande. Comoda la vita. Non si rischiano dubbi. Si hanno solo certezze da condividere con altri soggetti che hanno le stesse certezze generando fazioni, fanatismi, teologie fondamentaliste. Uccidendo il confronto, il dialogo, l’evoluzione delle idee. Senza perché ci si ritrova in una società di tribù ognuna delle quali con il proprio totem e tanti, troppi tabù della cui origine non chiedere mai. Prendete i ventenni di oggi. Leggono, se lo fanno, i quotidiani sportivi. Gli altri no. Fanno male alla salute. Raccontano del mondo là fuori e ci sono troppe cose “brutte” che non si accordano con il proprio insieme di valori (ovviamente certi). Meglio non rischiare di chiedersi il perché del disaccordo. Vuoi vedere che una qualche evidenza sperimentale invalida l’insieme di credenze? Non scherziamo. Finisce che per rispondere a un perché si scopre che le proprie credenze sono semplicemente sbagliate. Perché prendersi a picconate quando lo si può evitare semplicemente non sapendo, non rischiando un perché.

Non c’è da stupirsi del circo della politica italiana. Lo abbiamo definito e deciso noi che abbiamo esercitato il diritto/dovere del voto democratico senza chiederci perché.

La scuola, l’università vanno a rotoli. Sono anni che lo sanno tutti coloro che hanno figliolame in età scolastica. Perché è in questo stato lo sanno solo gli esperti che non lo possono raccontare solo ai pochi che, quasi di nascosto, chiedono perché.

La progressiva, triste, scomparsa del perché comporta anche la rapida evaporazione della curiosità. Anche perché essere curiosi oggi non è un pregio. Anzi. Se sei curioso sei dispersivo, hai problemi di attenzione, non approfondisci, non hai un’opinione su tutto. Male, molto male.

Posso umilmente suggerire di darsi la disciplina mentale di chiedersi, almeno tre volte al giorno, possibilmente dopo i pasti, il perché di qualsiasi cosa vi passa per la mente e di cercare la risposta scoprendo che spesso ce n’è più d’una il che alimenta nuovi perché in un’eccitante spirale virtuosa di crescita continua, di evoluzione, di cambiamento, apprendimento e dubbi? Perché? Perché è divertente e perché fa bene alla salute. Perché no?

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