Lontani dalle mete turistiche più gettonate si scopre una Calabria brulla e dura, ma al contempo ricca di fascino. L’occhio si perde tra vallate e dirupi, tra gole e torrenti e squarci di mare blu. Paesaggi lunari si fondono con abbazie, comunità albanesi, chiese medioevali, castelli normanni e pini loricati. Siamo nel Parco Nazionale del Pollino, il più esteso d’Italia (192.565 ettari), che abbraccia la Basilicata e la Calabria.

I tanti paesi che sorgono alle pendici di vette, chiamate qui Timpa o Timpone che superano spesso anche i 2000 metri di altezza, sono da esplorare anche per le loro prelibatezze gastronomiche. Qui, come in tutto il resto della regione, resistono tradizioni e abitudini dettate da una storia fatta spesso di stenti e di fame.

In questa terra il peperone trova il suo habitat naturale: passeggiando per i vicoli dei piccoli paesini basterà alzare lo sguardo per notare i filari di peperoni appesi ai balconi, messi al sole ad essiccare. Dai peperoni essiccati e poi infornati si ricava una polvere che arricchisce salsicce fresche e salumi più stagionati, ma un po’ ovunque si possono gustare con le patate, “ammollicati”, imbottiti oppure fritti e croccanti, come i famosi “zafarani cruschi” quando a essere utilizzati sono quelli della vicina Senise (Pz), paese del Pollino ma nel versante lucano.

Dalla Salerno-Reggio Calabria si esce a Morano Calabro per visitare il bellissimo borgo di origine romana che sorge su di un colle nella valle del fiume Coscile, al confine con la Basilicata, nel territorio che appartiene al complesso montuoso dell’Orsomarso e di Verbicaro.

Già dall’uscita dell’autostrada si nota la singolare cascata di case che degradano dalla sommità alla base del colle e che sembrano addossarsi le une sulle altre, ma il fascino di Morano è al suo interno, quando ci si aggira tra le piccole abitazioni, lungo le stradine e le ripide scalinate, i viottoli, i passaggi ad arco e le piazzette in un susseguirsi di scorci meravigliosi.

Dopo aver visitato il piccolo borgo (da non perdere la Chiesa di San Pietro e Paolo alla sua sommità, nei pressi del castello, la cui fondazione si fa risalire all’anno mille e che al suo interno custodisce pregevoli opere d’arte; la quattrocentesca Chiesa di San Bernardino e quella di San Nicola di Bari, nel cuore del centro storico), si può proseguire alla ricerca di formaggi.

Ai piedi del monte Serra nella vallata del Carbonaro, prendendo la strada provinciale 241 si arriva all’azienda agricola Dolci Pascoli, della famiglia Barletta, dove razze autoctone di pecore e capre (600 capi in tutto) si aggirano al pascolo naturale sulle colline del territorio circostante. Gli animali escono alle 6 di mattina e rientrano alle 8 di sera, mentre nel piccolo caseificio aziendale il formaggio viene lavorato solo dalle 4 alle 8 del mattino, le forme ottenute vengono poi continuamente lavate, asciugate e girate ogni ora. Si possono acquistare pecorini e caprini delle diverse stagionature (l’ideale è una semistagionatura di due mesi), la ricotta fresca o stagionata e, soprattutto in estate, la felciata, una crema di latte di pecora conservata nelle felci da consumare fresca.

Si può pranzare, ma anche pernottare, presso l’agriturismo Colloreto, ricavato da un’antica e rustica abitazione nel cuore del parco ai piedi del “Gavutu Russu”, contrafforte del Pollino, in un’oasi naturale e incontaminata. E’ sorprendente la cura dei dettagli, dall’arredamento al cibo, genuino e semplice, frutto di sapori antichi e preparazioni artigianali: ottimo il loro pecorino, ma anche i salumi, le marmellate, le conserve, il miele e il rosolio.

Da Morano Calabro si prosegue per Saracena, che sorge nella Valle del Garga ai piedi dei monti dell’Orsomarso, dove si produce il singolare vino Moscato. L’antico nucleo urbano, oggi poco abitato, è un intricato groviglio di viuzze strette che si dipanano tra scalinate e ripide salite (a ogni angolo ci sono fontane dalle quali sgorga un’acqua fresca e buonissima) che si sviluppano verso nord fino ad arrivare alla vecchia casa comunale e l’unico mezzo con il quale vi si può accedere, oltre i propri piedi, è l’Ape, il “tre ruote” nazionale.

Il vino passito che prende il nome dal paese, oggi presidio Slow Food, fa parte della tradizione del luogo: ancora oggi viene auto prodotto in tutte le case saracenare secondo un singolare e antichissimo metodo di lavorazione che prevede la cottura del mosto ottenuto dalla vinificazione delle uve malvasia e guernaccia al quale si aggiunge, in un secondo momento, quello ottenuto dalla spremitura dell’uva moscatello, raccolto e messo ad appassire per alcune settimane. Il vino ottenuto è dolce, ma non stucchevole, dai sentori di miele e frutta secca, caratterizzato da interessanti note ossidative che lo rendono, soprattutto se non troppo giovane, particolarmente adatto all’abbinamento con formaggi erborinati. Si può acquistare dai fratelli Bisconte, Feudo dei Sanseverino (qui potete trovare anche qualche vino rosso da uve magliocco) o dalla famiglia Viola.

Nel cuore del centro storico si può pranzare all’Osteria Porta del Vaglio, di Roberta Alberti e Mario Castaldo, che dopo aver studiato e vissuto a Bologna hanno deciso di tornare nel loro paese d’origine per aprire, lo scorso maggio, il piccolo e accogliente ristorante. (Vico I° Santa Maria Maddalena, 0981/349159 – 340 2496396)

Dopo pranzo potrebbe essere piacevole una passeggiata nel territorio montano che circonda Saracena per seguire il “sentiero Grotta San Michele” che costeggia il fiume Garga e porta fino alla località di Citavetere oppure giungere al piano di Novacco, uno splendido ed erboso pianoro carsico circondato da una fitta vegetazione e racchiuso dal Monte Caramolo, Timpone della Magara e Timpone Scifarello.

Lasciato il paese si può proseguire verso Civita, l’antico borgo dai mille comignoli. Questo sorge al culmine di un altopiano a picco sulle strettissime gole del fiume Raganello, uno spettacolare canyon alla base della Timpa del Demanio, scavato tra due altissime pareti rocciose levigate e modellate nel corso dei secoli, che si presta ad escursioni di canyoning o torrentismo. Civita (Çifti in albanese) oltre ad essere uno dei principali ingressi a sud del Pollino è una comunità Arbëreshë, come tante in Calabria, nate in seguito alla fuga degli albanesi che si stanziarono nell’Italia meridionale tra il XV e il XVIII secolo, dopo la morte dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg e la conquista dell’Albania e di tutto l’Impero Bizantino da parte dei turchi ottomani. Qui, oltre che nel piccolo Museo Etnico Arbëresh, si possono trovare un po’ovunque tracce delle loro origini, dalla lingua (i segnali stradali in due lingue) ad alcuni rituali religiosi (come la festa del Martedì di Pasqua, la“Vallja”, con danze in costume e canti corali), dall’arte alla gastronomia.

Non si può lasciare il Pollino senza una visita a Cerchiara di Calabria, la città del pane. Il piccolo borgo, risalente al XIII secolo, è raggruppato su uno sperone roccioso ai piedi del Monte Sellaro. Di particolare rilievo architettonico chiese e palazzi, mentre poco lontano dal paese ci sono le sorgenti sulfuree della Grotta delle Ninfe, dove è stato ricavato l’omonimo complesso termale. Dall’alto del paese invece dominano i ruderi di un antico castello di origine normanna che guarda su tutta la valle fino a Punta Alice, lì dove inizia il golfo di Taranto del versante calabro. Cerchiara è diventata famosa per il suo pane, ormai prodotto tipico del Parco del Pollino, gustoso e fragrante, a lievitazione naturale e cotto nel forno a legna, capace di conservarsi anche per più giorni. Tra i vari panifici dove lo si può acquistare si segnala quello di Vito Elisa.

Sarebbero, però, ancora tanti i paesi da visitare e i sentieri da esplorare in questo territorio che ha molto da offrire soprattutto a chi è capace di andare al di là degli scempi, frutto di soprusi e amministrazioni fallaci, per scovare il buono che, invece, ancora c’è.

Foto di Stéphane Aït Ouarab, clicca qui per ingrandire

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