Dopo il recente incidente, peraltro minore, alla centrale nucleare di Marcoule in Francia, è il caso di chiedersi se i paesi nuclearisti d’Europa non debbano pianificare una rinuncia, graduale ma irreversibile, a questa fonte di energia. Magari sotto l’egida dell’Unione Europea. Il vento sembra essere cambiato in maniera stabile e paesi come la Germania, la Svizzera e l’Italia hanno già imboccato la strada delle fonti sicure, autoctone e pulite.
di Marzio Galeotti* (fonte: Lavoce.info)
Un provvedimento che si proponesse di combattere l’inquinamento dell’aria mediante la sostituzione immediata dell’intero parco di vetture vecchie ancora circolanti sarebbe certamente improponibile. Ma una misura come l’Ecopass milanese è riuscita a orientare le scelte di chi aveva deciso di cambiare il proprio mezzo a favore di quelle a metano, Gpl, ibride e comunque più efficienti. Un provvedimento che mirasse a ridurre i consumi energetici del settore civile attraverso l’abbattimento di tutte le vecchie abitazioni non sarebbe naturalmente perseguibile. Ma una politica come la certificazione energetica degli edifici è efficace nell’improntare la costruzione dei nuovi alloggi verso una maggiore efficienza energetica. È la differenza tra lo stock – l’esistente – e il flusso – il nuovo, l’aggiuntivo.
Un processo graduale, ma irreversibile
Pur con tutti i distinguo necessari, una riflessione di questo tipo si impone anche per gli impianti che producono energia (elettrica) in Europa. L’incidente di qualche giorno fa a Marcoule in Francia, non lontano dal nostro confine, induce a domandarsi se non sia giunto il momento per l’Unione Europea e per i suoi Stati membri di dare inizio a un graduale, ma irreversibile, processo di uscita generale dal nucleare.
Gli accadimenti degli ultimi mesi hanno probabilmente cambiato in modo permanente l’atteggiamento della pubblica opinione dei paesi industrializzati verso il nucleare e progressivamente anche quello dei loro governanti. All’indifferenza e al disinteresse dei più, si sono lentamente sostituite attitudini che vanno dalla mera consapevolezza dei rischi di questa fonte di energia al misurato timore, fino a una distinta paura. Se è vero che le convinzioni delle posizioni estreme pro e contro il nucleare non sono probabilmente mutate, innegabile è il fatto che le classi politiche e i governanti dei paesi occidentali stanno cambiando, in misura diversa beninteso, opinione. Da questo punto di vista, la vera notizia relativa a Marcoule non è l’incidente all’impianto di riconversione dei rifiuti nucleari, quanto la dichiarazione di Martine Aubry, possibile candidata all’Eliseo, riportata due giorni fa dal Corriere della Sera: per l’esponente di spicco dei socialisti d’Oltralpe si deve uscire “progressivamente sì, ma senza indugi” dal nucleare. Una dichiarazione non proprio da poco per un politico francese di livello.
Fenomeni climatici e reattori
Vi sono due fatti fondamentali che determinano il crescente cambiamento di convinzioni sul nucleare, che ribalta quello che si affermò negli anni Sessanta e che fino a tutti gli anni Ottanta ha prodotto risultati, cioè nuovi reattori nucleari e nuove tecnologie costruttive. Il primo è rappresentato dal fatto che il mondo sta scoprendo come gli impianti nucleari, i cui incidenti passati e futuri agitano l’immaginario collettivo, siano potenzialmente soggetti ai fenomeni climatici estremi. I lettori più attempati non ricordano di avere sentito in passato notizie allarmanti sulla sicurezza delle centrali nucleari per lo scoppio di un grande incendio, o per l’arrivo di un uragano o per il verificarsi di un terremoto o maremoto. In questo inizio di ventunesimo secolo abbiamo invece visto cosa può succedere a una centrale nucleare se uno tsunami invade le coste del paese su cui sorge. Abbiamo sentito esprimere preoccupazione per i reattori che si trovano su un ampio territorio russo interessato da una vastissimo incendio. E abbiamo ascoltato i media americani raccontare non solo la paura di New York per il passaggio dell’uragano Irene, ma anche la notizia che la centrale nucleare di Oyster Creek in New Jersey è stata chiusa per prudenza. Non si tratta di fenomeni climatici causati dal riscaldamento globale, anche se questo pare avere un ruolo nella loro maggior frequenza e accresciuta intensità.
Centrali sempre più vecchie
Il secondo fatto fondamentale è il progressivo invecchiamento delle centrali che le rende per forza di cose più vulnerabili agli incidenti. Marcoule come Fukushima si inquadrano in tale contesto: gli impianti non sono più pericolosi, soprattutto se manutenzione e vigilanza sono condotte con tutti i crismi, ma l’età crescente accresce la probabilità di malfunzionamenti e incidenti. Il problema riguarda naturalmente i paesi che per primi hanno ospitato impianti nucleari, come Stati Uniti, Europa e Giappone. La durata media della vita di un reattore è stimata dall’Agenzia internazionale dell’energia tra i 40 e i 50 anni. L’età media dei 435 reattori nucleari attualmente in attività nel mondo è di 25 anni, mentre nell’Europa occidentale il 75 per cento è nell’ultima metà del ciclo di vita. In particolare, il 65 per cento dei reattori europei ha un’età tra 21 e 30 anni, mentre un ulteriore 20 per cento opera da oltre trenta anni. L’esplosione all’impianto di Marcoule – che ospita la più vecchia centrale francese del 1955, quella che ha determinato l’entrata dei cugini transalpini nel club delle potenze nucleari – ha fatto tornare alto l’allarme sugli impianti nucleari in Europa.
I risultati degli stress test, disposti dall’Unione europea dopo la catastrofe di Fukushima sui 196 reattori dei Paesi membri e degli Stati confinanti, non saranno definitivi prima di giugno 2012. Nel frattempo, sono cresciute le proteste degli ambientalisti per le centrali meno sicure del continente. Dei tredici impianti a circa 200 chilometri dall’Italia, a preoccupare sono soprattutto quello di Fessenheim, in Alsazia, la più vecchia delle strutture francesi costruita sulla faglia del Reno, e il reattore di Krsko, in Slovenia, teatro negli ultimi anni di numerosi guasti e incidenti. Più distanti, ma altrettanto pericolose, sono la centrale di Kozloduy in Bulgaria, della quale l’Unione Europea ha chiesto da anni la chiusura, e il complesso di Metsamor, ribattezzato la “Chernobyl d’Armenia”, con gli identici, antidiluviani reattori di fabbricazione sovietica.
E mentre restiamo in attesa di azioni concrete prima che succeda qualcosa di grave, le scelte di uscita dal nucleare di Germania e Svizzera e l’esito del referendum italiano suggeriscono un orientamento che anche gli altri paesi europei potrebbero fare proprio, magari all’interno di una generale riflessione europea. Quella della graduale sostituzione degli impianti nucleari, a partire dai più vecchi e pericolosi, con le nuove fonti che si vanno prepotentemente affermando, stando ai dati degli ultimissimi anni, sarebbe una strategia non solo ragionevole ma ormai storicamente inevitabile. Si accelererebbe così il raggiungimento della grid parity, l’uguale convenienza economica con altre fonti di origine fossile, si accrescerebbe l’indipendenza energetica e la riduzione delle emissioni.
Un’operazione del genere non si può realizzare concretamente nel giro di una notte né nel giro di anni, ma l’espressione ufficiale di tale orientamento sarebbe un grandissimo risultato politico per l’Europa. E ancora una volta, in questo ambito, sarebbe in anticipo sugli altri grandi paesi e se possibile in anticipo sul prossimo eventuale incidente.
* E’ professore ordinario di Economia dell’ambiente e dell’energia presso la Facoltà di scienze politiche dell’Università degli studi di Milano. Dopo la laurea in Discipline economiche e sociali presso l’Università Bocconi di Milano ha conseguito il dottorato in economia (Ph.D.) presso la New York University di New York. E’ direttore di ricerca presso il Centro di ricerca sull’economia e politica dell’energia e dell’ambiente (Iefe) dell’Università Luigi Bocconi. E’ stato Expert Reviewer del terzo e del quarto rapporto sui cambiamenti climatici dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), gruppo di lavoro III sulla mitigazione e membro della delegazione italiana alla 9a sessione dell’Ipcc Working Group III (Mitigation) (30 aprile – 3 maggio 2007) e alla 26a sessione dell’Ipcc (4 maggio 2007) a Bangkok, Tailandia. E’ stato coordinatore del programma di ricerca in modellistica e politica dei cambiamenti climatici della Fondazione Eni Enrico Mattei. Ha pubblicato estesamente in riviste scientifiche nelle aree della scienza economica, dell’economia delle ambiente e dell’energia.