Un sacchetto con caffè della prigione, un computer portatile, una fotografia con scritto: «Julian A., Ellingham Hall, 10 luglio 2011». Il Julian del ritratto è Assange, fondatore e volto pubblico di WikiLeaks, l’organizzazione che ha rivoluzionato il mondo dell’informazione mondiale pubblicando centinaia di migliaia di documenti riservati e segreti della diplomazia statunitense.
Tutti questi oggetti sono in vendita, all’asta, ovviamente su eBay, il più popolare sito di aste online. Per il caffé la base di partenza è di 315 dollari, mentre ci vogliono rilanci da 6 mila dollari per avere il computer, che ha un prezzo di offerta di partenza di oltre 550 mila dollari.
Il caffé sarebbe stato portato fuori di nascosto dalla prigione dallo stesso Assange, quando lasciò il carcere per andare agli arresti domiciliari, a dicembre 2010. E il computer è quello usato per preparare comunicati stampa quando WikiLeaks iniziò a pubblicare più di 250 mila cablogrammi delle ambasciate e dei consolati statunitensi in tutto il mondo.
L’asta, la prima di una serie di quattro, secondo quanto scritto dall’organizzazione in un posto su Twitter, serve «esclusivamente a sostenere il diritto di WikiLeaks a pubblicare».
Dopo gli exploit dei documenti riservati del Pentagono sulle guerre in Iraq e in Afghanistan e la miniera di informazioni dei cablogrammi, l’organizzazione fondata da Julian Assange, 40 enne australiano con la passione dell’informazione libera, è entrata in un periodo di profonda crisi, innescata innanzi tutto dalle pressioni dei governi chiamati direttamente in causa dal lavoro degli anonimi autori della raccolta di documenti e soffiate. Gli Stati Uniti hanno ottenuto che i principali circuiti di carte di credito bloccassero le donazioni per WikiLeaks. «Dal 7 dicembre 2010 – scrive l’organizzazione, che si basa esclusivamente sulle donazioni private – WikiLeaks è stata oggetto di un embargo illegale da parte di Bank of Amercia, Visa, Mastercard, PayPal e Western Union. Il blocco ha impedito al 90-95% dei donatori di esprimere il loro sostegno agli ideali in cui credono».
Per cercare di superare il blocco, gli avvocati di WikiLeaks hanno presentato una denuncia formale presso l’Unione europea e si stanno preparando ad andare in tribunale in Gran Bretagna, Usa, Islanda e Danimarca, alcuni dei paesi che ospitano i server usati dall’organizzazione per diffondere i documenti rintracciati.
Le difficoltà, però, non si fermano qui. Alcune organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, come Amnesty International, hanno criticato la decisione di WikiLeaks di pubblicare i documenti «crudi» senza preoccuparsi della sicurezza personale di persone eventualmente citate come fonti di informazione. È di questi giorni il caso, per esempio, di Argaw Ashine, un giornalista etiope, costretto a lasciare il paese per le minacce ricevute dopo che il suo nome è stato rintracciato in un cablogramma del 2009 dell’ambasciata statunitense di Addis Abeba tra le fonti di informazione per i diplomatici Usa.
A complicare la vita di Assange e della sua organizzazione – oltre all’opaco processo a suo carico in Svezia per l’accusa di stupro – è arrivato anche il deterioramento dei rapporti con alcuni grandi giornali mondiali che hanno attinto alle riserve di documenti di WikiLeaks, salvo poi dissentire su alcuni aspetti della gestione dei documenti stessi. La polemica più dura è stata con il quotidiano britannico The Guardian, che come altri ha concordato con WikiLeaks (fino a dicembre dello scorso anno) di editare i documenti proprio per evitare casi come quello di Ashine. Il Guardian, all’inizio di questo mese, ha criticato la decisione di Assange e della sua organizzazione di pubblicare, pochi giorni fa, tutti i cablogrammi statunitensi senza interventi a protezione delle fonti di informazione: «Alcuni devoti di WikiLeaks e difensori dell’estrema libertà di informazione applaudiranno a questa decisione – ha scritto il Guardian in un editoriale – Noi no. Ci uniamo al New York Times, a Der Spiegel, Le Monde e El Paìs nella condanna». Secondo il Guardian, le divisioni interne all’organizzazione maturate negli ultimi mesi e la preoccupazione per il processo in corso e per il futuro stesso di WikiLeaks, hanno spinto Julian A. verso una decisione di cui «deve assumersi piena responsabilità».
di Joseph Zarlingo