Fa uno strano effetto vedere la cosiddetta T del centro di Bologna senza auto, furgoni, camioncini e motorette sotto il sole di mezzogiorno. E’ come rimanere in piedi sui banchi del professor Keating in quella celebre sequenza liberatoria de L’attimo fuggente. Basta cambiare per un attimo la prospettiva da cui si osserva lo spazio circostante e i ventisei chilometri quadrati pedonalizzati del centro bolognese paiono un universo di spensierato piacere.

Biciclette, carrozzine e cagnetti a passeggio, con sosta prolungata in mezzo alla strada, proprio dove ventiquattrore fa un 27A della Breda Menarini ti avrebbe potuto “stirare” in un amen.

L’iniziativa del Comune di Bologna T Days che per il 17 e 18 settembre ha imposto la chiusura della T (via Indipendenza, Rizzoli e Ugo Bassi) al traffico è stata lodevole ed ha ottenuto grande successo tra i cittadini. Segno evidente che un quindicennio di continui ed incessanti blitz per riaprire lentamente il centro storico al traffico non hanno avuto poi tutto questo seguito.

In attesa di numeri ufficiali difficili da registrare e dare, ma grazie ad un colpo d’occhio piuttosto oggettivo nel conteggiare, meglio aggiornare una questione che per i bolognesi dura fin dai primi anni Ottanta.

Decisiva la spinta di una coda lunga dell’austerity metà anni Settanta, un “tutti a piedi” obbligato nei weekend, Bologna ha sperimentato, prima in Italia, il referendum per la chiusura di quello che per una città medievale è assoluto patrimonio storico e urbanistico: il centro storico, entro le mura.

Correva l’anno 1984 e con ancora nella memoria perfino il transito dei carri armati in centro (era il ’77 of course), l’allora sindaco Renzo Imbeni, comunista ambientalista, poi molto rimpianto, indisse un referendum per chiedere ai bolognesi se era il caso di sbarazzarsi della automobili in centro. A dire il vero il quesito era piuttosto all’acqua di rose: “volete vietare progressivamente la circolazione delle vetture private nel centro storico, per consentire il transito ai mezzi pubblici e ai veicoli dei residenti?”. A leggerla oggi sembra preistoria, ma all’epoca significava una rivoluzione rosso-verde da far impallidire.

Parteciparono oltre 310mila bolognesi, un bel 90%, di cui quasi il 70% rispose di Sì. Nella giunta comunista-socialista furono gli uomini del garofano a rompere le scatole con le chiavi da infilare nel cruscotto pronte in mano. Eppure la pedonalizzazione del centro che con Imbeni arrivò senza enormi scossoni, introdusse timidi passi verso una parziale chiusura. Nell’85 nacque la Zona a Traffico Limitato (Ztl) e si tentò una chiusura a fasce orarie con stop completo delle auto durante i weekend. Ma di quel post referendum in molti ricordano soltanto i “fittoni” che chiusero via Indipendenza, maledetti perfino da uno Sgarbi in vena di trasferte emiliane.

Ecco che lì si ferma l’ambientalismo in salsa comunista di Bologna. Anzi, da lì si inizia proprio a fare retromarcia. Con l’amministrazione Vitali dei primi anni Novanta sbuca il vigile elettronico Sirio posizionato ai varchi delle mura, presto spento da un’ordinanza prefettizia con una successiva deregulation in materia di traffico che tra Guazzaloca e Cofferati ha toccato l’apice del caso e dell’insuccesso.

Ora con Andrea Colombo, giovane assessore al traffico, pupillo di Mauro Roda, un passato da integralista della bicicletta e del partito, ritorniamo indietro di venticinque anni, con almeno mezzo polmone fuori uso per il benzene, ma con una traiettoria di lungo periodo che sembra promettere una rivoluzione green che nemmeno ad Amsterdam.

(d.t.)

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