“A tempo perso faccio anche il premier”. È come se Dottor Jeckyll e Mr Hyde, balzati fuori sotto una luce teatrale, dalle folgoranti pagine del romanzo breve di Louis Stevenson, si fossero infilati il doppiopetto Caraceni per darsi appuntamento davanti ad Arcore, con Gianpi Tarantini. Ed è come per certi serial killer che fanno di tutto per proseguire il proprio percorso nell’impunità, ma anche – schizofrenicamente – per farsi arrestare dagli investigatori che li inseguono. Immaginate che Il collezionista di ossa, con la sua voce da maniaco quando minaccia Denzel Washington, si sia trasformato – per effetto di una di quelle inconfondibili parodie di Franco e Ciccio – ne Il collezionista di tope. È esattamente così che, per un paradosso grottesco e surreale, sembra che Silvio Berlusconi si diverta a disseminare la sua vita presunta (Dottor Jeckyll) e quella reale (Mr Hyde) di indizi che dovrebbero provare la sua stessa inadeguatezza al ruolo che ricopre. È come se il satiro vedesse di cattivo occhio il leader della nazione e ci tenesse a farlo sapere, esattamente come il turpe Hyde voleva sfigurare la bontà di Jeckyll.
Mentre sapeva di essere intercettato (e lo sapeva così bene da confidarsi al telefono con il prode Lavitola) il Cavaliere quasi gridava nella cornetta: “Me ne vado da questo paese di merda!”. E adesso scopriamo che mentre si confidava compiaciuto con le sue papi girl, non ometteva di sottolineare che la sua vita preferita era quella delle “cene eleganti” e non certo quella di Palazzo Chigi. E allora, anche spiando nell’occhio della serratura dell’immaginario squadernato dalle intercettazioni, dalle testimonianze e dalle inchieste, vale la pena di provare a indagarla questa vita parallela vissuta come quella di un Mr Hyde arcoriano, provando a prendere per buona l’affermazione del Cavaliere.
E cioè immaginando che sia quella del Berlusconi ridanciano, l’unica vita possibile, o anche l’unica vera. E che invece l’altra, quella dello statista, fosse la finzione a cui tutti hanno creduto tranne l’interprete. Pensate a mamma Rosa, nella celebre (unica) intervista a Tg7: “Il Silvio è così serio che non te lo puoi immaginare in una festa, o con delle ragazze”. Forse Berlusconi ha recitato la parte del figlio modello per lei, finché è stata in vita? Certo, nell’apologo fantastico di Stevenson era la fine dell’effetto della pozione a innescare la crisi. Nella drammatica realtà che viviamo è la crisi che ha vaporizzato l’effetto del filtro magico con cui Berlusconi ha preso per incantamento il paese per diciassette lunghi anni. Risentire oggi “Avete sentito bene, aboliremo l’Ici” in un paese sull’orlo della bancarotta provoca il sorriso, e subito dopo un moto di rabbia. Risentire e rivedere oggi, calzate sesquipedali come “In due anni aboliremo il cancro” rende bene la misura della farsa, la dimensione del commediante che “a tempo perso” si fingeva statista.
È lo stesso Berlusconi, come suggerisce uno che lo conosce bene, Carlo Taormina, a spargere altri indizi sulla via di una incerta strategia difensiva. Quella che consiste nel sostenere l’indifendibile, esattamente con Gian Maria Volonté, nel memorabile Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto lasciava volontariamente, da omicida, un filo della propria cravatta come indizio sulla scena del delitto su cui lui stesso si sarebbe trovato a indagare. Quel filo di cravatta era una geniale metafora: l’anti-Stato che sfida lo Stato sul suo terreno, l’impunità che vuole farsi legge nello spazio metafisico dell’indifendibile. Il filo di cravatta che Berlusconi-Hyde ha lasciato sul cadavere del dottor Jeckyll di Palazzo Chigi, apposta per alzare il livello della sfida o farsi scoprire è la telefonata in questura per Ruby Rubacuori.
Il punto di non ritorno del delirio è l’atto di fede imposto alla sua stessa maggioranza, l’obnubilazione dei suoi stessi deputati, costretti, per la conseguenza dello stesso capriccio, a votare un documento solenne in Parlamento, per dirsi convinti che Ruby fosse la nipote di Mubarak. Sì, è vero: in tutte queste afflizioni, opere di bene e sforzi per tenere in piedi l’unico welfare che gli sia stato a cuore, quello delle escort dell’Olgettina, in questo fulgore di opere pie in cui la finalità benefica era mantenere il grande corruttore, Gianpi Tarantini, Berlusconi è stato premier “a tempo perso”. Solo che il tempo perso non era il suo, ma il nostro.
Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2011