S&P affonda le sue origini intorno al 1860, quando negli Stati Uniti si impose la necessità di valutare l’affidabilità delle obbligazioni emesse dalle grandi compagnie che costruivano le nuove linee ferroviarie verso il lontano West
Niente filtra il giorno del “rating committee” di Standard & Poor’s sull’Italia. Il via libera alla bocciatura è stato unanime? O, piuttosto, contrastato? Quanto è durata la discussione, probabilmente in conference call? Niente, nessun dettaglio. Solo la decisione finale. Inesorabile. Inoppugnabile.
Di sicuro si sa che il comitato è stato presieduto, come al solito, da David Beers, capo della divisione del rating sovrano di Standard. Ha studiato alla London School of Economics. Ma con quei baffoni e un look assai trasandato, è l’immagine della vecchia generazione di chi lavora nelle agenzie di rating, gli “hippy della finanza”, come vengono chiamati, sostituiti sempre più dalle nuove generazioni di giovanotti rampanti, che non restano più una vita intera a lavorare per la “causa” (per una media attuale di 105mila euro lordi all’anno, una vera miseria a Wall Street), ma sfruttano i contatti accumulati grazie a quel lavoro per essere assunti da un fondo d’investimento qualsiasi. E cominciare a fatturare davvero. E’ anche a questa (relativamente recente) osmosi fra le agenzie di rating e il mondo “vero” della finanza che si punta il dito per dimostrare la scarsa credibilità di S&P e compagnia: irresistibile confusione tra giudici e giudicati.
Anche John Chambers, direttore generale di Standard, è un tipo d’altri tempi. Non ha neppure studiato economia: è laureato in letteratura inglese. Forse era presente pure lui ieri al comitato per decidere sulla sorte dell’Italia. Il meeting inizia sempre con l’intervento di chi segue il Paese in questione. L’analista, alla fine, dà una indicazione: mantenere il rating, abbassarlo, migliorarlo. In tutto anche solo una quindicina di minuti di discorso. Segue, poi, il dibattito, che, invece, puo’ essere più lungo e ostico. Alla fine si vota. Vige il sistema “one man, one vote”. Insomma, l’opinione del junior vale come quella del senior. Per le decisioni importanti (vedi il debito sovrano dell’Italia) i componenti del committee sono particolarmente numerosi, una ventina. Ma in numero dispari, per evitare l’impasse. Non solo: la regola vuole che votino prima i juniors e solo alla fine i seniors, perché questi non influenzino i più giovani.
S&P affonda le sue origini intorno al 1860, quando negli Stati Uniti si impose la necessità di valutare l’affidabilità delle obbligazioni emesse dalle grandi compagnie che costruivano le nuove linee ferroviarie verso il lontano West. Delle “tre sorelle”, come vengono chiamate le principali agenzie di rating a livello mondiale (le altre sono Fitch e Moody’s), è la più rispettata e temuta. Questo, però, non ha impedito che sia finita al centro delle polemiche, dopo che (al pari dei colleghi) non ha visto arrivare la crisi dei subprime nel 2007 (valutava con la tripla A molti dei prodotti finanziari legati a quei mutui ipotecari fino alla vigilia del patatrac), né il fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Lo scorso 5 agosto, a sorpresa, ha declassato (fino a quel momento nessuno aveva osato tanto) il debito pubblico Usa da AAA a AA+, scatenando la bufera sui mercati.
Dicono sia stata proprio la vecchia guardia, quella degli “hippy della finanza”, a spingere per quel declassamento: una sorta di manifestazione d’orgoglio, mostrare che S&P puo’ ancora andare contro corrente. Ma, tanto per mettere i puntini sulle i, il dipartimento di Giustizia ha subito ricordato che sta ancora indagando sugli errori dell’agenzia sui suprime (non è che gli analisti furono clementi perché quelle stesse società che emettevano prodotti derivati da valutare erano clienti di Standard?). Intanto la Sec, corrispettivo statunitense della Consob, ha aperto un’inchiesta sul discusso voto sul debito sovrano Usa di inizio agosto per il quale, almeno inizialmente, gli analisti di S&P commisero un errore di «appena» 2mila miliardi di dollari nel fare i conti: davvero madornale, un macigno per la reputazione dell’agenzia. Che sbandiera sempre la sua indipendenza. Tanto più che, a differenza della rivale (e più screditata) Moody’s, non è quotata in Borsa. Peccato, però, che l’editore McGraw-Hill, proprietario di Standard & Poor’s, abbia appena deciso di scinderla dal resto del gruppo, proprio per introdurla in Borsa. Si’, perché S&P è una gallina dalle uova d’oro (mentre i mercati crollano, continua a macinare utili : +43% del margine operativo nel primo trimestre) e va valorizzata. Si tratterà di una nuova mazzata sull’affidabilità (vera o presunta?) dell’agenzia. Che ieri ha bocciato inesorabilmente l’Italia.
Leonardo Martinelli