Due coppie si ritrovano in un appartamento di Brooklyn per risolvere uno spiacevole incidente: il figlio di una delle due ha spaccato la faccia con un bastone a quello dell’altra. Sono quattro persone borghesi e istruite, tra i quaranta e i cinquanta, educate e intenzionate a sistemare tutto in maniera pacata. Mica sono dei bambini, loro. Peccato, però, che una chiacchierata civile sfoci in una battaglia di tutti contro tutti. Uomini contro donne, coppie contro coppie. La ferocia trattenuta ogni minuto di ogni giorno esplode squarciando la maschera dell’ipocrisia.
Il film si apre con una carrellata in avanti in un parco, poi con una indietro in una stanza. Ed è subito cinema. E ci mancherebbe. Roman Polanski, il genio, usa tutti gli elementi della scena (un unico set, se si escludono prologo ed epilogo “muti”) con sapienza. Visto poi che di appartamenti se ne intende (Repulsion, L’inquilino del terzo piano, Rosemary’s Baby), non stupisce che giochi con gli specchi o con inesorabili ritornelli su quei dannati divani (più poltrona) su cui scorre non sangue, ma la carneficina verbale della coppia.
Ma Carnage è così perfetto da essere come i suoi protagonisti: di facciata. E a differenza di Penelope (Jodie Foster) e Michael (John C. Reilly), Nancy (Kate Winslet) e Alan (Christoph Waltz), non perde mai le staffe. Distanza ironica? Rispecchiamento del significante con le buone maniere di questi quattro orrendi esseri a cui tutti, tristemente, assomigliamo? Certo. Ma l’unico vero momento geniale è quando Polanski ride di sé, con quel vicino che osserva da una porta mezza aperta, richiamando le maschere malefiche de L’inquilino. L’unico momento in cui ritroviamo l’umorismo nero nero nero dell’immenso regista è quando si prende un po’ in giro, quasi a dirci che anche lui è invecchiato ed è diventato meno cattivo. Con sé e con noi.
Ed è questo il punto: Carnage è un film che concede allo spettatore la catarsi e anche qualcosa in più, l’autocompiacimento. Siamo così superiori che possiamo vedere questo film, che ci dipinge per quel che siamo, e tornare a casa sereni. Come se non fosse successo nulla. È brutto, e anche sbagliato, paragonare i film tra loro perché due film diversi si pongono obiettivi diversi. Ma dopo la visione di quel capolavoro sulla famiglia, la società opprimente e la maternità che ha reso famoso Polanski, ovvero il già citato Rosemary’s Baby, col cavolo che ci sentiamo superiori ai protagonisti e torniamo a casa tranquilli: siamo terrorizzati di essere fagocitati dal “demonio” senza che ce ne avvediamo.
In quel film, infatti, siamo chiamati continuamente in causa da un meccanismo di crudele ambiguità. In Carnage lo spettatore è invece chiamato in causa solo come spettatore. La distanza tra noi e “loro” è immensa per poter suscitare sensazioni che non siano concilianti. Sappiamo di essere “quella roba lì”, ma non sentiamo di esserlo davvero. Mentre in Rosemary’s Baby non pensiamo di essere come la protagonista, ma poi ci sorge il dubbio di esserlo ogni giorno della nostra vita.
Carnage ci fa restare fuori dal film, protetti sulle nostre sedie. Anche questo, in un certo senso, fa parte della sua meditata perfezione. Però alla fine questa storia, questa guerra tra i sessi, lo sfacelo del matrimonio, l’infelicità dietro l’apparenza, la violenza ineliminabile in qualsiasi consesso umano, il ribaltamento dei ruoli tra vittime e carnefici, tutto quanto, viene esorcizzata con un borghesissimo sorriso. Non più quello delle coppie, ormai sfracellate, sullo schermo. Ma il nostro, che soavi usciamo dalla sala. Allora, se vi pare, evviva Carnage con i suoi 79 minuti di cinema inappuntabile. Proprio come la sciarpina della Winslet che fa pendant con i guanti, o come la sua vomitata a getto perfettamente da copione.