La crisi del debito pubblico continua a creare forti tensioni sui mercati finanziari internazionali. Si rivedono al ribasso le stime di crescita e il timore di una nuova recessione diventa concreto. In questi giorni, numerosi lettori si rivolgono a lavoce.info per avere chiarimenti e magari qualche rassicurazione. Fare previsioni non è facile, perché le variabili in gioco sono molte. Possiamo però analizzare alcuni aspetti specifici e indicare le conseguenze delle diverse scelte possibili per governi e istituzioni internazionali. Attraverso un dossier che cerca di rispondere ai vostri quesiti.
Tutti vorremmo sapere come andrà a finire la crisi del debito pubblico. Vorremmo essere rassicurati sul fatto che non ci sarà una nuova recessione. Ma non abbiamo la sfera di cristallo per indovinare quali decisioni prenderanno le organizzazioni sovranazionali e i governanti dei diversi paesi, cosa faranno le banche centrali, come reagiranno le borse e le opinioni pubbliche. Possiamo, invece, abbozzare scenari e rispondere su aspetti specifici. Decine di domande di questo tipo ci giungono quotidianamente dai lettori, attraverso e-mail e commenti agli articoli pubblicati. Abbiamo deciso di raccogliere le più significative e interessanti e di dare risposte formulate dai nostri redattori con un linguaggio quanto più possibile chiaro e semplice. Questo dossier si arricchirà nei prossimi giorni. Anche grazie a voi che, crediamo, continuerete a porre i vostri quesiti.
Domanda. Perché la Fed mantiene i tassi a zero, mentre la Bce li tiene a 1,5? Quali sono le implicazioni e i rischi delle due politiche?
Risposta. La Fed e la Bce hanno due mandati diversi: la Bce è vincolata dal suo Statuto a una politica monetaria che ha come obiettivo primario la stabilità dei prezzi; ciò non vale per la Fed. Di conseguenza, la banca centrale americana ha una strategia più flessibile e discrezionale. Può permettersi quindi una politica molto espansiva per un lungo periodo di tempo.
Vi è da dire che la politica monetaria della Bce non può dirsi restrittiva, con tassi d’interesse del mercato monetario negativi in termini reali. La maggiore flessibilità della Fed riguarda non solo la gestione del tasso d’interesse di policy, ma anche le cosiddette politiche “non convenzionali”, come l’acquisto di titoli del debito pubblico sul mercato. La banca centrale americana è stata finora molto più aggressiva su questo fronte; la Bce si è mossa con maggiore prudenza. La politica della Fed viene incontro alle esigenze di stabilizzazione dei mercati finanziari, sostenendo le quotazioni dei titoli; non sembra invece avere molto successo nel sostenere l’economia reale e nel ridurre la disoccupazione. Il rischio principale di questa politica è generare un’altra “bolla” dei prezzi delle attività finanziarie; questa bolla potrebbe scoppiare quando prima o poi il sostegno artificiale ai prezzi dei titoli verrà meno.
La politica della Bce cerca di evitare questo rischio, oltre che di non compromettere l’obiettivo di lungo periodo della stabilità dei prezzi. Tuttavia, nelle circostanze estreme in cui si trova attualmente la zona euro, essa potrebbe rivelarsi troppo rigida. Soprattutto in mancanza di politiche fiscali adeguate e di provvedimenti di sostegno agli Stati ad alto debito, a causa dei blocchi decisionali a livello europeo, la salvezza dell’euro potrebbe risiedere nella capacità della Bce di acquistare in dosi massicce titoli di stato, a costo di immettere molta (troppa) moneta nel sistema economico. Ma la Bce potrebbe rifiutarsi di seguire questa strada: i pur limitati acquisti effettuati finora hanno generato forti tensioni nella Bce stessa (che hanno condotto alle dimissioni dei tedeschi Weber e Stark dal consiglio direttivo della banca).
Domanda. Perché non utilizziamo la “bad bank”, come si è fatto per risolvere alcuni casi di dissesti bancari, anche per risolvere il problema del debito greco?
Risposta. La soluzione della “bad bank” prevede tipicamente che una banca insolvente venga spezzata in due. Una mantiene in bilancio le attività “sane” e può continuare a operare sul mercato. L’altra (la “bad bank”, appunto) si accolla le attività che valgono poco sul mercato; in altri termini si accolla le perdite. Per sopravvivere, la “bad bank” ha bisogno del sostegno pubblico, che interviene ripianando le perdite e immettendo capitale; di fatto lo stato diventa proprietario della “bad bank”, sperando di poterla rivendere in tempi migliori (quando, eventualmente, i suoi asset avranno recuperato almeno una parte del loro valore).
Questa soluzione non può essere applicata a uno stato sovrano. Non esiste un’autorità al di sopra dello stato insolvente che possa intervenire e spaccare in due lo stato stesso, divenendo in sostanza proprietario della entità “cattiva” e lasciando autonoma la parte “buona”.
Le risposte sono a cura di Angelo Baglioni
Fonte: www.lavoce.info