La cosiddetta manovra economica, approvata dopo settimane di contorsioni buffonesche, è stata percepita, giustamente, come un maldestro tentativo di “circonvenzione di incapace” a danno della massa dei risparmiatori. Basti pensare che una parte importante del provvedimento è affidata alla “delega fiscale”. Piccolo particolare: la Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale (G.U. n. 91 del 18-4-2003) fu approvata il 7 aprile 2003 e imponeva all’esecutivo di varare i relativi decreti attuativi entro 2 anni. Se ne era persa traccia da otto anni.
Ricordate cosa prometteva quella legge di riforma epocale? E’ comprensibile che la memoria faccia difetto dopo tanto tempo, quindi ecco un sintetico (ma non esaustivo) elenco:
1) Cinque imposte “ordinate in un unico codice”: imposta sul reddito, imposta sul reddito delle società, imposta sul valore aggiunto, imposta sui servizi, accisa.
2) Riduzione a due aliquote dell’imposta sul reddito, rispettivamente al 23% fino a 100.000 euro e al 33% oltre tale importo.
3) Limite del 33% sul totale delle imposte societarie.
4) Norme fiscali informate ai principi di chiarezza, semplicità, conoscibilità effettiva, irretroattività in ottemperanza allo Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212, altra bufala).
5) Identificazione, in funzione della soglia di povertà, di un livello di reddito minimo personale.
6) Graduale eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP).
Il tutto poi in un quadro di “buona fede nei rapporti tra contribuente e fisco” e tanti altri principi mai applicati, anzi ripetutamente violati. Ma mentre gli incapaci telelobotomizzati (o che votano a comando), vivono nell’oblio, i mercati hanno memoria d’elefante. Come è possibile che impegni solennemente sottoscritti in campagna elettorale e mai attuati in otto anni, possano venire onorati in poche settimane da una maggioranza che deraglia ad ogni decisione e un governo i cui ministri si trattano con reciproco disprezzo?
Di fronte a tanta sfrontatezza, improvvisazione e mala fede nel riproporre la stessa fandonia tremontiana vecchia di otto anni (e di diciotto nell’originale propaganda berlusconiana), si è infranta ogni residua fiducia nella capacità del governo italiano almeno di tamponare l’emergenza. Non sarà un aumento dell’Iva dal gettito incerto ad attirare le allodole.
Quale via d’uscita si puo’ ipotizzare se Berlusconi, Tremonti e Bossi non hanno smesso la marsina da illusionista, nemmeno di fronte al disastro evitato per l’intervento della Bce e agli impegni solenni presi con Draghi e Trichet, soprattutto sulla crescita?
Nell’attesa del declassamento di Moody i grandi investitori istituzionali hanno venduto gradualmente i titoli italiani confidando che la Bce e le banche europee avrebbero acquistato per evitare il peggio. Visto che Moody prendeva tempo si pensava di avere qualche settimana di bonaccia. Invece a sorpresa è arrivato il tifone S&P, aggiungendo alla bocciatura sui conti la certificazione del fallimento politico e quindi decretando la fine dei circenses.
Tradotto in linguaggio comune significa che ormai qualsiasi provvedimento prenda questo governo, questo primo ministro, questo ministro dell’Economia, non c’è nessuno dentro e fuori l’Italia disposto a dargli credito. Le statue di cera potranno anche continuare a incassare voti di fiducia in Parlamento. Ma di questi incassi salderà il conto quel poco di economia sana rimasta in Italia. Il berlusconismo è un velivolo senza controllo. Difficile prevedere quanti ne coinvolgerà nello schianto, se non lo si abbatte.
Chi si illude che l’aggravio sul servizio del debito in fondo ammonti ad una manciata di miliardi e solo se i tassi rimanessero a questi livelli, soffre di una miopia già manifestatasi in Portogallo fino a pochi giorni prima che il governo gettasse la spugna. Si diceva che il tasso medio sul debito era poco sopra il 4% e quindi perfettamente sostenibile.
Ma le dinamiche delle crisi non sono affatto graduali: quando la domanda di titoli di stato da parte straniera e da parte dei piccoli risparmiatori si riduce, le banche un po’ perché subiscono la moral suasion del Tesoro un po’ perché hanno interesse a tenere a galla il mercato acquistano e stringono i denti mettendo a repentaglio la solidità patrimoniale. E’ per questo che le azioni delle banche italiane (e di altri paesi, in particolare la Francia) perdono continuamente in Borsa. In Portogallo il brusco finale di partita lo decretarono gli istituti di credito informando congiuntamente il governo che non avevano più margini per gli acquisti del suo debito. La decisione di S&P è un preludio. Ma non di Chopin.