Wazir Mohammed Akbar Khan è un quartiere di Kabul pieno di residenze protette dal filo spinato. Quasi a ogni angolo c’è un poliziotto o una guardia privata armata di kalashnikov e le strade, piene di buche al di fuori di quella principale, sono tenute apposta così. Le buche evitano che un’auto possa arrivare a tutta velocità e schiantarsi con un carico di esplosivo contro una delle case un po’ kitsch in cui alloggiano ministri, diplomatici, generali. Burhanuddin Rabbani abitava lì, in uno di questi edifici, a poca distanza dal centro della capitale afgana, dieci minuti a piedi da Shar-e Naw.
L’esplosione che lo ha ucciso è avvenuta attorno alle 16 ora italiana, quando a Kabul era già sera. Rabbani era presidente dell’Alto Consiglio di pace, la controversa commissione di 70 membri nominata dal presidente Hamid Karzai per le trattative di pace con i Talebani. Assieme a lui sono morte altre quattro persone e non è chiara ancora la sorte di Masoom Stanikzai, che del Consiglio era segretario. Secondo i primi, ancora frammentari lanci di agenzia, c’erano assieme a Rabbani due esponenti dei Talebani.
Secondo la Bbc, l’esplosione è avvenuta nella casa di Rabbani e forse è stato proprio uno dei Talebani che si trovavano da lui per le trattative a farla esplodere. L’Afp aggiunge che – citando fonti afgane – che la bomba era nascosta nel turbante di uno dei partecipanti all’incontro, un falso emissario talebano secondo la polizia afgana. La stessa modalità, se confermata, usata dai Talebani per uccidere qualche mese fa il sindaco di Kandahar, Ghulam Haider Hamidi.
Il presidente afgano era a New York per un incontro con Barack Obama e in vista dell’assemblea generale dell’Onu che si apre domani nel Palazzo di vetro. Alla notizia della morta di Rabbani ha lasciato immediatamente la città statunitense per tornare a Kabul.
L’uccisione di Rabbani, e forse anche del suo vice alla Commissione Masoom Stanikzai è un duro colpo politico per Karzai che ha scommesso molto sul lavoro – peraltro contestato sia in Afghanistan che dall’estero – della commissione di pace.
Rabbani è stato uno dei protagonisti principali della vita politica dell’Afghanistan degli ultimi 20 anni. Da sempre in prima linea nella lotta ai Talebani, ricoprì l’incarico di presidente dal 1992 al 1996, quando fu costretto a lasciare Kabul a causa dell’avanzata dei seguaci del mullah Omar che conquistarono la capitale e assunsero il controllo del paese. Rabbani era un tagiko originario della provincia settentrionale del Badakhshan. Grazie agli studi teologici presso la scuola Darul-uloom-e-Sharia di Kabul e poi all’università al-Azhar del Cairo, negli anni Settanta era diventato un autorevole esponente del movimento islamico afghano. Nel 1972 fu nominato da una jirga di 15 saggi capo della ‘Jamiat-e Islamì (Società islamica), il partito dal quale poi nato il movimento dei mujahedin che combatterono l’Unione Sovietica negli anni Ottanta.
Protagonista della guerra contro l’Armata rossa, Rabbani e i suoi uomini furono tra i primi ad entrare a Kabul nel 1992, quando caduto il governo comunista, il leader di Jamiat-e Islami viene eletto presidente di un governo che aveva come primo ministro Gulbuddin Hekmatyar, fondatore di Hezb-e Islami (Partito islamico). Dopo la presa del potere da parte dei Talebani, Rabbani fu costretto a rifugiarsi nelle zone settentrionali dell’Afghanistan, dove contribuì a organizzare l’Alleanza del Nord, composta dalle fazioni in lotta contro i turbanti neri. Dopo l’11 settembre 2001, Rabbani fu uno dei nomi in lizza per la carica di presidente, ma negli ultimi giorni di trattative gli venne preferito l’attuale presidente. Rabbani era il leader del Fronte Nazionale Unito, il principale partito d’opposizione al governo Karzai.
Proprio per il ruolo avuto negli anni della guerra civile seguita alla ritirata dei sovietici, però, Rabbani era anche considerato uno dei più potenti «signori della guerra», quelli responsabili della rovina del paese e di una lunga serie di crimini e violazioni dei diritti umani la cui scia insanguina ancora il difficile presente dell’Afghanistan.
di Joseph Zarlingo