“Pereant qui ante nos nostra dixerunt”. Tradotto molto liberamente, suona più o meno così: “Che si fot… quelli che prima di noi hanno detto le nostre idee”. Ecco, così parlava Elio Donato, grammatico latino famoso più per esser stato maestro di San Girolamo (padre e dottore della Chiesa, nonché primo traduttore della Bibbia dall’ebraico e dal greco al latino) che non per le sue massime.
Eppure già allora, nel quarto secolo dopo Cristo, con nonchalance affermava il principio (per nulla politicamente corretto) di giustificazione per ogni plagio. Con una excusatio non petita in fondo diceva: ebbene, se io dico o scrivo cose che prima di me qualcun altro ha detto o scritto, in fondo, chissenefrega! Magari copiava anche lui. Se lo venissero a sapere personaggi come Joseph Macé-Scaron forse lo utilizzerebbero come argomentazione per esser stati beccati a copiare. Beccati e impallinati.
Joseph Macé-Scaron è uno dei critici letterari francesi più in vista. Già giornalista del serioso Figaro, oggi è il direttore del mensile Le Magazine littéraire, direttore aggiunto del settimanale Marianne, conduttore della trasmissione Jeux d’épreuves di France Culture, cronista letterario per molti canali e trasmissioni televisive. Insomma, uno che conta. Da buon critico ha scritto e continua a scriver libri. L’ultimo dei quali uscito a maggio, con il titolo Ticket d’entrée, per l’editore Grasset. Vista la “statura” dell’autore, il libro è stato commentato e ben accolto. A giugno ha vinto il premio letterario “la Coupole”. L’editore ha brandito l’effigie: “fra le migliori vendite dell’estate”.
Poi qualche settimana fa scoppia il finimondo. In rete una lettrice scrive che molti passaggi del libro non sono altro che evidenti plagi di un romanzo americano (tradotto pure in francese nel 2003) di Bill Bryson, dal titolo Cronache da un grande paese. Inizia così il tam tam su internet, che però dura soltanto qualche giorno, quando alla fine si risolve con l’ammissione del principale interessato. Joseph Macé-Scaron interviene e ammette: «Ho fatto una cazzata!». Testuale: «Une connerie».
Ora, forse è un po’ poco come spiegazione. Forse pensa che tutto si risolva con l’oblio: passa qualche mese, nessuno se ne ricorda più, et voilà, si ricomincia come e meglio di prima. Del resto è quanto era successo a Henri Troyat, l’immortale (così vengono ribattezzati i membri dell’Accademia di Francia, ma poi immortali non sono: è morto nel 2007) che nel 2003 fu condannato da un tribunale per “contraffazione parziale”, eppure i suoi pari non ritennero di doverlo sospendere dall’Accademia. Un plagio può anche costare caro: lo sa bene l’ex ministro tedesco Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi dopo che in rete fu accusato (a ragione) di aver copiato la sua tesi di dottorato.
Certo il tema non è nuovo: Macé-Scaron è solo l’ultimo di una lunga lista. In passato figure importanti e illustri hanno confessato di aver plagiato: Jonathan Swift, Laurence Sterne, Martin Luther King, Samuel Coleridge. E anche Vladimir Nabokov fu accusato di aver copiato l’idea di Lolita da un breve racconto di uno sconosciuto scrittore tedesco, Heinz von Eschwege, apparso con lo stesso titolo qualche anno prima del capolavoro del russo. Per rimanere in tempi recenti, l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq La carta e il territorio (Bompiani) contiene ampi stralci di descrizioni prese qua e là da Wikipedia e altri siti. Ma anche da noi non mancano esempi illustri: Umberto Galimberti è ormai un frequentatore abituale di frasi altrui – c’è addirittura chi s’è preso la briga filologica di enumerare passo per passo le copiature del professore, scrivendoci persino un libro (Francesco Bucci, Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale, Coniglio editore). Ma anche Melania Mazzucco, che nel romanzo Vita (premio Strega 2003) si è distratta e ha riproposto pagine intere di Guerra e pace di Tolstoj.
E poi anche Vittorio Sgarbi, Daniele Luttazzi, Corrado Augias… Il catalogo è ampio. Per non parlare di quella mente sublime e surreale, artista dell’opera-fotocopia, dell’ingegner Fabio Filippuzzi. Lui ha battuto tutti in un sol colpo. Una serie di libri, pubblicati dalle edizioni Campanotto e Mimesis, interamente copiati dalla prima all’ultima pagina da opere altrui (anche di autori piuttosto famosi: Peter Handke e Jean-Paul Enthoven). Per molto tempo nessuno se n’è accorto, nemmeno gli editori che li hanno pubblicati. Come non si sono accorti di nulla i redattori dei giornali ai quali collaborava Tommaso Debenedetti: quest’ultimo inventava di sana pianta interviste a scrittori famosi con i quali non aveva mai parlato. E nessuno diceva nulla. Plagio? No, piuttosto un’altra forma d’imbroglio, una contraffazione. La stessa messa in pratica da Jayson Blair, il giovane reporter del New York Times che, inventandosi false storie, non soltanto ha provocato il suo licenziamento, ma anche quello del direttore Howell Raines e di un altro anziano dirigente perché non avevano controllato – a differenza di quei giornali dove scriveva Debenedetti, dove nessuno è stato nemmeno richiamato.
Abbiamo così un buon sommario della nostra epoca, la stessa che già il filosofo Adorno riteneva un’epoca di plagi. Ma la questione è: c’è plagio e plagio? Di solito, le giustificazioni dei beccati sono le stesse: “lavoro abitualmente prendendo appunti qua e là di altri libri; poi capita che riprendo in mano queste annotazioni e non ricordo più se sono mie o no, e quindi ci lavoro senza che me ne accorga”. Insomma, il plagio a sua insaputa! Bisognerebbe allora dare una definizione di plagio, perché altrimenti Debenedetti rimane un creativo, visto che non ha copiato nessuno ma ha soltanto contraffatto. La miglior definizione si trova nel Piccolo libro del plagio di Richard A. Posner (elliot editore), nel quale si dice: «Per poter parlare di plagio è necessario che il copiare, oltre a essere ingannevole e quindi fuorviante per il pubblico a cui è rivolta l’opera, carpisca la fiducia del lettore».
Si tratta perciò di onestà intellettuale. Quando Pia Pera nel 1995 ha scritto il Diario di Lo, ovvero la riscrittura di Lolita di Nabokov dal punto di vista della ragazza, non soltanto non ha cercato di nascondere il debito al russo, anzi al contrario lo ha esibito. E non ha tradito la fiducia di nessuno. Così anche Antonio Scurati, che nel suo Una storia romantica affida onestamente alla postilla il debito con altri romanzi, riga per riga. E così fanno in molti. Poi c’è l’eccezione. Il grande Eugenio Scalfari, nelle sue due ultime opere uscite da Einaudi, affida i propri debiti a questa nota: «Ci sono molte citazioni nella pagine di questo libro. Di alcune do un ragguaglio bibliografico; altre vengono liberamente dalla mia memoria poiché nei tanti anni trascorsi certi testi sono andati smarriti, sicché non ho potuto recuperarne gli editori e i traduttori». Certo, non è come la massima di Elio Donato. E poi a lui perdoniamo tutto. Forse in definitiva aveva ragione l’autore di un cartello comparso all’Hotel Rand di New York: «Quando rubi da un autore è plagio, quando rubi da tanti è ricerca».