Mai, mai, mai. Mai avremmo pensato di dover celebrare il de profundis del memorabile “Mavalà” ghediniano, nello spazio angusto di questo squarcio di inizio secolo. Mai su queste pagine. Mai con il Cavaliere ancora epicamente impegnato a far danni. Sarebbe come se Mariastella Gelmini si spingesse a dire che le sta a cuore la scuola pubblica, come se Renato Brunetta carezzasse un precario, come se Sabina Began – l’arma letale del Cavaliere – con la sua splendida vocetta flautata, chiamasse Italo Bocchino e gli dicesse: “Sei un ragazzo sensibile, ho letto il tuo sms, e mi ha colpito profondamente. Voglio stare con te perché mi desideri!”. Bestemmia.
“Faccio vita ritirato, io”. L’uomo che riuscì a tramutarsi in un innocente Rasputin del berlusconismo, il Cavaliere templare di Arcore nell’arena teatrale e sbarrata di Annozero, il bardo legislatore capace di riscrivere ogni cavillo del codice civile con la leggerezza di un bulldozer e la precisione chirurgica di un killer sentimentale, pur di salvare anche un solo processo del suo cliente, improvvisamente getta lo spadone e l’armatura, si straccia la toga di primo difensore e davanti ai magistrati dice: “Faccio una vita molto ritirata, sto moltissimo con il Presidente, ma nelle ore di lavoro”. Dopo cena? “Dopo cena no”. Sarebbe come se Noemi Letizia gettasse i suoi zigomi in titanio, le sue labbra lipopneumatiche e le sue protesi siliconate quarta C (coppa larga), come se Pietro Lunardi facesse una vibrante dichiarazione antimafia, come se mentre scoppia una catastrofe mondiale, Franco Frattini non si facesse sorprendere in settimana bianca. Mai mai mai. Anzi, impossibile.
Ecco perché occorre dire che il “Mavalà” fu davvero l’epigrafe di un’epoca, l’icona di una stagione di teleguerriglia, uno stendardo azzurro. Ed era stata proprio la china alata del nostro The Hand (subito raccolta e celebrata dalla penna di Marco Travaglio) a fare di quell’intercalare un sistema di pensiero. Quando Ghedini gridava “Mavalà” ad Annozero, nel paese si fermavano gli orologi, i bimbi insonni cessavano il pianto. In quel volto opalescente e crisantemico si riassumeva qualcosa di più di un grumo di berlusconismo avvocatizio: c’era il senso di sdegno della grande borghesia produttiva e anti-intellettuale del Nord, in quel moto di sdegno appena filtrato dalle lenti a goccia di vetro, c’era il riverbero di un blocco sociale che il centrodestra seppe catalizzare prima che i sogni finissero.
Adesso Ghedini va dai magistrati con tono dimesso, non si avvale nemmeno del segreto professionale, ci tiene a segnare la differenza fra se stesso e il presidente del Consiglio. Sono una donna / non sono una santa, sono il suo difensore, non sono mica un suo amico, un frequentatore di “cene eleganti”. Leggere per capire: “Non ho ottenuto nessuno dei risultati che mi prefiggevo”. E anche: “Il presidente ha una straordinaria capacità di comprensione delle debolezze umane, io non ce l’ho”. Notare la perfida ironia dell’aggettivo “umane” riferito a Tarantini. Insomma, alla stessa velocità implacabile in cui la luce sgretola il regno dell’ombra nel finale epico della trilogia tolkieniana, il crepuscolo del berlusconismo annichilisce le trasfigurazioni che costituirono lo scudo del Cavaliere.
Neanche Di Pietro. Ghedini non parla. Ghedini adesso si dissocia: “Il presidente mi pare che abbia detto: ‘A Tarantini gli ho fatto avere 500 mila euro’. E io gli ho detto: ‘Quando, come, perché?’ Quando ho saputo questa cosa non ho reagito entusiasticamente, soprattutto quando ho saputo che la dazione era avvenuta tramite Lavitola”. Adesso, per cortesia, pesate le parole, perché Ghedini con le parole ci vive, ci produce reddito. Ghedini è pagato all’ora, come gli avvocati americani, mille euro all’ora, mille euro per tremila parole, quando noi diciamo “mavalà, mavalà, mavalà” prendiamo fiato, quando lo dice Ghedini ha già guadagnato un euro. Ghedini era discepolo e profeta del Berlusconi che schioccava tre volte le dita davanti alla stampa estera e diceva: “In questi tre secondi ho già guadagnato tremila euro”.
Ed è per questo che Ghedini non può dire “dazione”, e associare questa parola contundente a Berlusconi. Perché “dazione” è il vocabolo dipietrese con cui l’ex pm più famoso d’Italia ha battezzato le tangenti di Mani Pulite. Quando dice “dazione” davanti ai magistrati è come se Ghedini stesse dando a Berlusconi del corrotto davanti ai giudici che lo indagano, è come se fosse diventato per il Pdl quello che Roberto Peci è stato per le Br. E dire che Ghedini era l’uomo che con le parole costruiva giochi di prestigio, quello che nascondeva il concetto di puttaniere dietro la meravigliosa invenzione burocratica dell’“utilizzatore finale”. Che poi non voleva dire un beneamato cavolo, ma sempre meglio di quello che voleva nascondere, era. Ghedini che dice “Sì, d’accordo, no, faccio l’avvocato penalista da non pochissimi anni, posso aver espresso giudizi non collimanti con i suoi, sia su Tarantini, sia su Lavitola, non ho ottenuto nessuno dei risultati che mi prefiggevo”.
L’infiltrato ad Arcore. È il proclama di una resa. È come se Mara Carfagna avesse davvero letto la letteratura francese che raccontava di aver divorato da ragazza in una sdegnata replica a Filippo Facci, è come se Susanna Petruni pensasse davvero che la farfalla è un insetto, è come se Augusto Minzolini facesse uno dei suoi video-editoriali sul processo Mills, e si ricordasse di dire che non è stato assolto. Di fronte a questa metamorfosi del “Mavalà”, non si può che applaudire il primo pentito del berlusconismo, esattamente come il generale Alberto Dalla Chiesa considerò Peci un eroe dell’anti-terrorismo. Quando si arriverà al 25 aprile, per cortesia, facciamogli avere un salvacondotto speciale e una medaglia. Ormai è un nostro infiltrato. Ghedini è il Donnie Brasco del Fatto ad Arcore di questo iridescente fine regime.
Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2011
Vignetta di The Hand. Per ingrandire clicca qui