“E’ stata una dura lotta”. E’ con questa frase, quasi da guerrigliero sconfitto, che José Luis Zapatero ha preso ieri per l’ultima volta la parola come capo di governo nell’emiciclo del Congresso.
Il premier spagnolo nel suo addio, la despedida, ha contenuto il più possibile il tono amaro, e si è caricato delle responsabilità di un paese impantanato nella crisi. Incalzato dagli attacchi impietosi del leader dell’opposizione, Mariano Rajoy, che lo ha accusato di lasciare “un’eredità avvelenata”, il premier ha dichiarato di sentirsi responsabile per l’alto tasso di disoccupazione nel paese.
“E’ per questo motivo che non riesco a lasciare con un sentimento di soddisfazione la Presidenza – ha detto Zapatero – anche se è un dato di fatto che il mondo è colpito dalla più grave crisi da ottant’ anni a questa parte, a causa della quale tre paesi sono stati costretti a chiedere aiuti finanziari.”
In Spagna i disoccupati hanno toccato quota 4,9 milioni, l’economia ristagna e il debito pubblico pesa come un macigno. Eppure era stata proprio l’economia a permettere al governo Zapatero di toccare il cielo con un dito, prima di sprofondare nell’inferno della recessione. All’inizio del 2008, l’esecutivo socialista sfoggiava il più basso tasso di disoccupazione dall’avvento della democrazia, solo l’8%. I conti pubblici apparivano in ordine e la crescita economica sembrava costante.
Il “miracolo spagnolo” si poggiava però su basi fragili. Nel corso del 2008 allo scoppio della crisi , Zapatero per lunghi mesi è rimasto in uno stato di incredulità. Una reazione che in seguito pagherà cara. Dopo aver negato la realtà per mesi, tallonato anche dall’Unione Europea, ha accettato di cambiare totalmente rotta. La metamorfosi verso le ricette liberiste è stata radicale. Dalle intuizioni per sostenere sullo stato sociale della prima legislatura e gli interventi di ispirazione keynesiana ai primi accenni della crisi, il governo infine opteàr per tagli e piani di aggiustamento drastici.
Mentre la Germania premeva per tagli di bilancio di 35 milioni di euro, Madrid li ha limitati a 15 milioni con riduzione degli stipendi ai funzionari, congelamento delle pensioni, riduzione delle spese pubbliche e un cammino verso riforme che Zapatero ha intrapreso “costi quello che costi, anche a livello personale.”
Tutte misure che hanno evitato il crollo, almeno fino ad ora, ma che hanno provocato nel paese un diffuso malessere sociale. Il movimento 15-M è diventato nel tempo portavoce dei cittadini traditi. Seguono a ruota moltissime realtà sociali, tra cui sindacati e partiti minori, vittime del bipartitismo spagnolo.
Ora i socialisti decidono di passare il testimone. A luglio il premier, quasi a sorpresa, ha annunciato le elezioni anticipate per il 20 novembre. Da quel momento il Partido Popular ha iniziato a cantare vittoria.
Oggi lo ha fatto anche lo stesso Mariano Rajoy, candidato alla presidenza, che durante la seduta del Congresso oltre ad accusare Zapatero per la situazione economica del paese, ha rincarato la dose ed ha presentato una lista di norme su come si governa un paese.
Mariano Rajoy ha congedato Zapatero augurandogli “suerte”, mentre i parlamentari lo hanno salutato con un applauso in piedi. Ma nell’emiciclo si è consumato molto di più di un faccia a faccia tra governo e opposizione. Si è infatti aperto uno squarcio sul futuro della Spagna, se verrà confermata la previsione, data da tutti i sondaggi di una netta vittoria del Partido Popular. Una classe dirigente dai toni aggressivi che scalpita e che potrebbe far ricadere un vento reazionario in un paese che ha visto negli anni della crescita socialista le conquiste sui diritti civili come la legge sulla fecondazione assistita, sul matrimonio alle coppie omosessuali alla riforma sull’aborto.