Da quando vivo a Londra ho fatto diversi lavori, tra cui alcuni piuttosto avvilenti o faticosi, come il lavapiatti o lo scaricatore di frutta in un ristorante italiano; eppure nessuno di questi lavori mi ha dato un quadro preciso del mondo in cui viviamo come il lavoro d’ufficio: quello che, a tirare le somme, più mi ha aiutato a “pagare le bollette”.
Negli uffici di Londra e di tutto il mondo si producono merci: dalle polizze d’assicurazioni alle merendine. Nel mio caso si producevano libri, e pur’essi erano una merce. Preso atto di ciò – e non credendo alle favole dell’“azienda-famiglia” o della “missione che ci guida”, etc., mi interessava cercare subito, in ogni contratto che firmavo, quanto tempo fosse richiesto per produrre quella merce. Era una mistero. Secondo le “regole non scritte”, la mia giornata lavorativa sarebbe dovuta iniziare alle 9 e finire alle 17. Non male, mi dicevo: in Italia si narra tutt’oggi di impiegati tenuti fantozzianamente a cura di neon fino alle sette, o alle otto di sera (e anche oltre).
Miserabile illusione, perché pure in Inghilterra, dove spesso gli “uffici Sinistri” sono immersi nel verde, si arriva a lavoro in bicicletta e non in 600, esiste una presenza che rimescola le carte: lo Stakanovista Entusiasta. Puntualmente vedevo entrare lo Stakanovista in ufficio prima di me, e uscirne dopo. Ore dopo. Il guaio era che gli altri colleghi, col tempo, finivano per imitarlo. Soprattutto gli stagisti. Era un rincorrersi silenzioso e implacabile. Il concetto di “lavoro flessibile”, ormai interiorizzato, diventava dilatazione del tempo ispirata agli orologi che si sciolgono di Dalì. Una infinita gioia per l’azienda, ovviamente.
Allo stakanovismo si accompagna negli uffici poi un altro fenomeno, ancora più grottesco: il monitoraggio di e-mail e Internet. Ah, pratica legale, come molte altre ingiustizie di questo mondo. Lo scopo ufficiale è quello di intercettare virus e infrazioni informatiche, ma di fatto il monitoraggio è un raffinato strumento psicologico per farti sentire in colpa se ti dedichi al personal surfing – leggasi: “i fatti tuoi”. Giusto, si direbbe: il Web può essere una droga come altre, che provoca inefficienza. Però la cosa divertente è che, lavorando come social media manager, il mio compito era convincere altri utenti a trascorrere quanto più tempo possibile sulle pagine che la nostra azienda aveva su Facebook, l’addiction per definizione.
L’Uomo da Ufficio – da ora «UdU» – con le sue cuffie nelle orecchie, i suoi scherzetti goliardici tra colleghi, i suoi aperitivi, i suoi tic, le sue ritualità consumate – e sia egli impiegato nella Cultura come nella produzione di merendine cambia poco – mi sembra una delle figure più omogeneizzate a livello europeo, forse mondiale. Eppure è la categoria che più si sente estranea a qualunque concetto di sindacalismo, di rappresentanza politica, insomma a qualunque ideologia. L’Udu ha abbracciato però un’altra fede, di nome professionalismo: anche l’ultimo degli stagisti si presenta col biglietto da visita, anziché cercare nuove forme di autonomia da iniettare nel macchinario che lo umilia.
Sarebbe utile a questo punto il confronto con un’altra categoria, quella dei commercianti: essi sono notoriamente conservatori, chiederebbero tutti, o quasi, il porto d’armi per sparare a vista a chi gli ruba la mercanzia, e pur non essendo professionalisti si sono imposti regole precise, orari ferrei di chiusura obbligatoria, per non crepare in fretta. Quando l’UdU finisce di lavorare alle sei o alle sette, trova molti commercianti già a casa a guardare la tv.
Al contrario, l’UdU è una figura notoriamente progressista: in Inghilterra come in Italia ripudia la guerra, la violenza, i predicozzi intellettuali. E intanto in ufficio, abbandonato a se stesso, abbandonata ogni pretesa che non sia cliccare su qualche petizione online, egli dedica ogni ambizione a competere con i propri simili. L’UdU lentamente assume un colorito grigiastro, inizia a sognare lidi esotici, cerca nelle letture e nella tv qualcosa che lo faccia sentire buono e giusto, e diventa intollerante per qualunque cosa che gli mandi in tilt la routine.
E intanto la felicità al lavoro, indotta dall’alto, finisce per essere parte di sé, la sua happiness.
Insomma, esagero? Mi piacerebbe sentire le vostre storie, al riguardo.
di Paolo Mossetti, scrittore, nato a Napoli nel 1983. Collabora con ‘Rolling Stone’, ‘Loop’, ‘Nazione Indiana’, ‘Through Europe’. Vive a Londra.
Grazie a Federico Campagna per l’ispirazione, dettata dalle nostre mille chiacchierate sull’argomento. Rigorosamente dopo il lavoro.