Solo un governo asserragliato nel bunker può sostenere che il declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating sia frutto di un complotto mediatico. In realtà, è la conseguenza inevitabile di due gravi problemi che sono diventati ormai strutturali: una crescita economica insufficiente e un costo del debito superiore agli altri paesi. La decisione di Standard & Poor’s era scontata e infatti lunedì la reazione dei mercati è stata modesta: tutto previsto, purtroppo.

Le ragioni sono ben spiegate nei rapporti del Fondo monetario internazionale pubblicati in questi giorni. Il documento dedicato allo scenario macroeconomico fornisce un quadro preoccupato e definisce “anemico” il tasso di crescita dei paesi sviluppati. Per l’area dell’euro, le previsioni per il prossimo biennio vengono abbassate a 1,6 e 1,1 per cento, che si riducono per l’Italia a un misero 0,6 e 0,3. In due anni, cioè rischiamo di accumulare quasi due punti di differenza rispetto alla media di Eurolandia. Se gli altri sono anemici, noi stiamo ancora peggio.

È vero che il rapporto del Fondo sulle finanze pubbliche stima che le misure approvate dall’Italia sono in grado di stabilizzare il debito, anche se non verrà raggiunto il pareggio di bilancio (ma il deficit corrente viene ridotto all’1 per cento, che comunque è tra i più bassi del mondo occidentale). Il documento mette però in evidenza altre due verità elementari, che attenuano di molto questa confortante notizia. Primo. In uno scenario di bassa crescita, il rapporto debito/Pil è destinato a crescere soprattutto dove questo indicatore è già alto. Un semplice esercizio dimostra che Grecia, Giappone e Italia sarebbero i più esposti: per essi, una diminuzione di un punto di Pil rispetto alle previsioni significa un aumento del rapporto del 20 per cento circa, il che significa un debito non più controllabile. Detto in altri termini, per l’Italia il rischio di non raggiungere i già magri obiettivi di crescita comporta conseguenze ben più gravi che altrove. O, se si preferisce, noi avremmo bisogno di crescere più degli altri, anziché continuare ad accumulare ritardi. Non a caso, S&P si è affrettata a spiegare che il declassamento italiano è motivato soprattutto dall’incapacità del governo di prendere misure adeguate al rilancio dell’economia.

Il secondo problema riguarda lo spread, cioè il maggior costo del nostro debito pubblico, salito a oltre 3,5 punti percentuali nonostante gli aiuti della Bce. Osserva il Fondo che questo non comporta un maggior costo sul debito totale, ma solo sulle nuove emissioni: anche se questi livelli persistessero fino alla fine dell’anno, l’impatto sul deficit sarebbe di circa 0,2 punti di Pil. Dunque, se gli attuali livelli fossero temporanei, l’effetto complessivo sarebbe modesto, anche se non bisogna dimenticare che il problema non è da attribuire solo alle tempeste estive: è da maggio del 2010 che il tasso italiano si muove in controtendenza rispetto ai paesi del G7, cioè da quando ha cominciato a sfaldarsi la credibilità dell’azione economica e finanziaria di questo governo.

Il problema è che non è affatto probabile che tutto torni come prima per l’area dell’euro e cioè che, superata in un modo o nell’altra la tempesta, gli spread scendano ai modesti livelli pre-crisi per tutti i paesi aderenti all’unione monetaria. Sia in caso di un default controllato della Grecia, sia nel deprecato caso di rottura totale o parziale dell’euro, i creditori subiranno delle perdite e dunque in futuro non saranno più disposti – come hanno fatto in passato – a considerare più o meno alla stessa stregua tutti i paesi di Eurolandia. Forse, gli spread di oggi non sono razionali, ma ancora più irrazionali erano quelli vicini allo zero di cui tutti hanno beneficiato fino all’esplosione della crisi greca.

Non solo: lo spread rappresenta un onere aggiuntivo anche per il debito del settore privato, se non altro perché aumenta proporzionalmente il costo di raccolta sui mercati delle banche. Ma se i tassi italiani a lungo termine risulteranno permanentemente così disallineati rispetto a quelli di tutti gli altri paesi del G7 come accade ora, la competitività dell’intero paese va a rotoli. Ancora più che per il settore pubblico, il settore privato avrebbe urgente bisogno che questi spread rientrassero rapidamente. Non a caso, il commento più sferzante alla decisione di S&P è venuto dalla Confindustria, preoccupata di vedere aumentare i costi finanziari delle imprese a livelli doppi o tripli rispetto alle imprese concorrenti.

Purtroppo per noi il grande effetto analgesico della moneta unica è cessato, probabilmente per sempre. D’ora in poi, conta solo la vera robustezza di ciascun paese e la credibilità della sua azione di governo. I proclami sulle “sferzate” all’economia e sui “tagliandi” per la crescita sono stati valutati per quello che realmente sono, cioè meri esercizi verbali, “lip service”, come direbbero gli inglesi. Espressione che il nostro premier interpreta nell’unico modo che gli è congeniale. E così, sempre Marcegaglia dixit, diventiamo lo zimbello d’Europa, lo spread rimane a livelli intollerabili nel lungo periodo e si rischia il tracollo.

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2011

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