Legalizzare la mafia sarà la regola del Duemila”, cantava De Gregori nel 1989. Finalmente ci siamo. I politici di governo parlano come i mafiosi. Altro che casta, questa è una cosca. L’altro giorno abbiamo segnalato il contributo del molto intelligente Ferrara alla mafiosizzazione del linguaggio politico, quando il tenutario di Radio Londra ha fatto un uso criminoso della tv pagata coi soldi di tutti per spiegare che B., versando centinaia di migliaia di euro a Tarantini e Lavitola, non ha pagato il pizzo al racket: si è solo garantito “la protezione”. Gli ha subito fatto eco il suo padrone con tutta la corte, fulminando il ministro Tremonti, reo di non aver votato per salvare dal carcere il fido Milanese, accusato solo di associazione a delinquere e altre robette. Ma come: la cosca si presenta compatta alla Camera per strappare un compare dalle grinfie degli sbirri, e uno dei boss se ne va all’estero? E dire che lo stesso Milanese, secondo il Corriere (mai smentito), l’aveva avvertito: “Se vado in galera, non ci andrò da solo”. Paniz era stato ancora più chiaro: “Se arrestano lui, domani potrebbe toccare a chiunque di noi”.

È tutto un incrociarsi di ricatti
, avvertimenti, minacce, messaggi trasversali. E non nelle intercettazioni, che al confronto sono roba da educande. Ma nelle dichiarazioni pubbliche. Del resto l’aveva detto il molto intelligente Ferrara a Micromega nel 2002: “Se non sei ricattabile, non puoi fare politica, perché non sei disposto a fare fronte comune”. Dunque il compito del ministro dell’Economia non è salvare il salvabile (ammesso che ci sia ancora qualcosa di salvabile) al Fmi, al G20 e in altri consessi internazionali: è fare il palo e tenere il sacco al compare di turno. “Meglio uno sbirro amico che un amico sbirro”, diceva Provenzano ai suoi picciotti secondo l’ultimo pentito di mafia. Infatti ora Tremonti è visto con sospetto, come il padrino che diserta i summit e qualcuno insinua che stia diventando “sbirro”, che stia trescando con la polizia. “Tremonti è immorale”, schiuma il boss del Consiglio: “Non essere venuto a votare per il suo amico, mentre noi ci mettevamo la faccia, è una cosa indegna”. Milanese: “Mi ha nauseato, io sono qui sulla graticola al posto suo e lui scappa”. La Santanchè: “Dobbiamo essere uniti nella buona e nella cattiva sorte”.

Gli house organ della banda esultano nella migliore tradizione mafiosa perché un altro l’ha fatta franca. Libero: “Manettari scornati”. Il Giornale: “La maggioranza tiene, niente carcere per Milanese”. Poi mitragliano il traditore. “Tremonti scappa”, titola don Olindo. E Giordano, degno allievo: “Il coniglio dei ministri va in fuga. Mentre la maggioranza fa quadrato per salvare il suo collaboratore, lui taglia la corda”. Anche la scelta dei vocaboli è illuminante. Sono i manigoldi di tutte le risme che dicono “tagliare la corda”. Del resto sono 17 anni che il Parlamento condivide le stesse preoccupazioni delle bande criminali: come fuggire alle manette, alle intercettazioni, ai magistrati, ai processi, alle indagini, alle perquisizioni, agli interrogatori, ai pentiti, ai testimoni. E legifera di conseguenza. B. a Lavitola: “Te l’avevo detto che ci intercettavano”. B. al suo domestico Alfredo venuto a portagli tre telefonini peruviani appena omaggiati da Lavitola: “Ma guarda un po’, queste cose le fanno i mafiosi” (infatti cominciò subito a usarli). Lavitola a Tarantini: “Lo mettiamo in ginocchio… con le spalle al muro… alle corde… e lui ci dà tutti i soldi che vogliamo”. La D’Addario alla Montereale: “Mo’ voglio fare uscire fuori un po’ di cose”. E l’altra: “Sì, puoi fargli il culo come ha fatto Noemi, quella puttana”. A furia di frequentarle, il presidente del Consiglio ha rovinato anche le mignotte. Alla prossima festa della Polizia, i membri del governo si daranno alla fuga di massa. “Arriva la Madama”. “Ci hanno beccati”. “Oddio, la Pula”, “Metti in moto”. “Passami il piede di porco”. “Tagliamo la corda”.

Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2011

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