Aveva promesso un cessate il fuoco e negoziati politici, Ali Abdullah Saleh, da 33 anni presidente dello Yemen, tornato venerdì a sorpresa nel suo paese dopo tre mesi di convalescenza forzata in Arabia Saudita per le ferite riportate nell’attentato subito all’inizio di giugno. Aveva promesso una tregua, ma l’effetto immediato del suo ritorno è stato un attacco lanciato dalle truppe della Guardia repubblicana – comandata da uno dei figli di Saleh – contro le posizioni della Prima brigata, guidata dal generale dissidente Ali Mohsen al-Ahmar. Bilancio, del tutto provvisorio, del sabato di sangue è di almeno 40 morti nella sola capitale Sana’a.
Epicentro dei combattimenti Piazza del Cambiamento, dove da otto mesi sono accampati i manifestanti che chiedono la fine del regime di Saleh. Già negli ultimi sei giorni nella Capitale come in altre zone del Paese (Aden, Taiz e la provincia di Sadaa) le truppe passate con i manifestanti hanno fronteggiato i reparti rimasti fedeli al presidente. A Sana’a, mercoledì, i governativi hanno usato anche l’artiglieria pesante e l’aviazione per bombardare il quartier generale delle truppe ribelli, non lontano da Piazza del Cambiamento.
Il generale al-Ahmar, un tempo stretto collaboratore di Saleh, ha scelto di unirsi ai manifestanti dopo il massacro del 21 marzo scorso, quando a Sana’a le truppe governative hanno aperto il fuoco contro una manifestazione anti-regime uccidendo almeno 45 persone. Gli ospedali della Capitale hanno lanciato un appello perché mancano medicinali ed equipaggiamenti chirurgici per i feriti, che sono molte decine.
La situazione in Yemen è precipitata di nuovo, dopo alcune settimane di relativa calma, quando sembrava ormai a portata di mano una via d’uscita politica alla crisi che sta paralizzando il Paese e lo sta portando pericolosamente vicino alla guerra civile. Lunedì 12, infatti, il presidente Saleh aveva autorizzato il vicepresidente in carica Abdrabuh Mansur Hadi a firmare il piano di transizione, mediato dai paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc) che avrebbe dovuto essere attuato “entro una settimana”. La scadenza però è passata senza alcuna firma e gli scontri sono ripresi con un’intensità finora mai vista.
Alla radice della crisi, nel più povero e meno istruito tra i paesi arabi, oltre all’onda lunga della Primavera araba, c’è anche, secondo alcuni analisti, la rottura dell’alleanza tra le elite yemenite e il regime. Il movimento di protesta, essenzialmente guidato dai giovani che costituiscono la maggioranza della popolazione, ha fatto esplodere rivalità finora rimaste sepolte dal consenso forzato alla dittatura. Essenzialmente, secondo Ginny Hill – analista della Chatham House, un think tank britannico che sta seguendo con grande attenzione l’evoluzione della crisi yemenita – ci sono tre fazioni in lotta: il clan di Saleh, che occupa i gangli vitali dell’apparato di potere, la confederazione tribale che fa capo agli al-Ahmar, appoggiata dall’Arabia saudita, e il generale Ali Mohsen al-Ahmar (niente a che vedere con la confederazione omonima). In questa lotta per il potere, sono proprio i movimenti di protesta che rischiano di rimanere schiacciati. Con in più il rischio – molto avvertito a Washington e a Ryadh – che il caos avvantaggi le reti jihadiste e al-Qaida che nello Yemen hanno alcune delle loro principali e più radicate basi d’appoggio. Non bisogna dimenticare, infatti, che dall’attacco alla USS Cole, la nave statunitense colpita con un attentato suicida nel porto di Aden il 12 ottobre del 2000 (17 marinai morti e 39 feriti), lo Yemen è in cima alla lista dei paesi “ad alto rischio” di terrorismo e le forze speciali Usa periodicamente compiono incursioni o blitz con i droni in territorio yemenita per dare la caccia a presunte cellule terroristiche.
Saleh ha cercato di usare lo spauracchio di al-Qaida e della guerra civile per puntellare il proprio regime e ricevere ancora sostegno dai sauditi e dagli statunitensi, ma la tattica finora non ha pagato: ancora ieri la Casa Bianca ha ripetuto che Saleh deve lasciare il potere e avviare la transizione democratica che gli yemeniti da otto mesi continuano a chiedere sfidando anche le pallottole.
di Joseph Zarlingo