La Grecia non è il primo paese che rischia il fallimento (default). Prendiamo il caso dell’Argentina. A fine anni ’80, l’Argentina aveva conosciuto una fase di iper-inflazione. Nel 1989 ad esempio i prezzi crescevano del 200 per cento su base mensile e del 5.000 per cento su base annua (tanto per avere un’idea, nell’area dell’Euro oggi l’inflazione è di circa il 2,5-3 per cento su base annua). Si racconta che a Buenos Aires i prezzi nei ristoranti e nei negozi fossero scritti su lavagnette con il gesso bianco per poter essere aumentati durante la giornata.

Per combattere questo problema, il paese sudamericano decise di adottare un sistema di currency board: per legge venne dichiarato (1992) un cambio fisso con il dollaro Usa e si stabilì che ogni cittadino argentino potesse chiedere la conversione in dollari di qualsiasi ammontare di pesos (convertibilità piena). Per poter mantenere il cambio fisso e la convertibilità piena, la Banca centrale argentina doveva detenere un ammontare di riserve in dollari (e in titoli a breve denominati in dollari) almeno pari all’intera quantità di pesos circolante nel Paese.

Il regime di cambio fisso eliminava di fatto ogni autonomia della politica monetaria argentina. In pratica era come se l’Argentina avesse realizzato un’unione monetaria con gli Stati Uniti adottando in sostanza il dollaro come valuta nazionale. Il currency board consentì all’Argentina di eliminare l’inflazione ma si tradusse rapidamente in una grave perdita di competitività per il sistema produttivo argentino: il pesos era sopravvalutato e quindi la carne e i prodotti argentini faticavano ad essere venduti all’estero mentre il paese era invaso da prodotti importati.

L’Argentina accumulò in questo modo un ingente debito estero, necessario per finanziare le importazioni e per mantenere il cambio fisso con il dollaro. Il governo, d’altro lato, seguiva politiche restrittive per ridurre la dinamica delle importazioni. Perdita di competitività e politiche restrittive causarono una fase di recessione e di elevata disoccupazione (viene in mente la Grecia, vero?).

Nel 1999 il Pil ebbe una contrazione del 4 per cento. Nel 2001 la crisi di fiducia raggiunse livelli altissimi e milioni di argentini iniziarono a ritirare i loro risparmi dalle banche, convertirono i pesos in dollari Usa e portarono all’estero questi dollari. Il governo per evitare il tracollo delle banche congelò per 12 mesi tutti i depositi bancari consentendo prelievi molto ridotti. Si ebbero manifestazioni in tutte le città, cortei che via via divennero violenti, con assalti alle banche (come in Grecia).

A gennaio 2002 il governo Argentino dichiarò che non avrebbe pagato le cedole e restituito il capitale sui titoli del debito statale, dichiarò default. Si trattava del più grande fallimento della storia. Il debito argentino era stimato pari a 93 miliardi di dollari nel 2002. Contemporaneamente il governo abbandonò il tasso di cambio fisso con il dollaro e svalutò il pesos, in prima battuta di circa il 40 per cento. In questo modo si restituì ossigeno all’industria e al sistema produttivo argentino (ciò che la Grecia non riesce a fare). E’ come se l’Argentina fosse uscita dall’unione monetaria con gli Stati Uniti.

A quale costo? Si calcola che il Pil dell’Argentina sia diminuito di circa il 40 per cento a seguito della crisi di default. Nel solo 2002 il Pil crollò dell’11 per cento rispetto all’anno prima. Si ebbe nella fase acuta della crisi un ritorno al baratto: i pesos erano ritenuti carta straccia. La Banca mondiale ha stimato che a ottobre 2002 (quindi nel pieno della crisi) circa il 58 per cento della popolazione argentina era caduta sotto la soglia della povertà e il 27,5 per cento era in uno stato di povertà assoluta, non era in condizione cioè di mangiare a sufficienza.

Questi dati servano da monito a chi dice che l’Italia dovrebbe ripudiare il suo debito. Il debito pubblico argentino era nella quasi totalità in mano a soggetti stranieri. Il governo argentino, dopo una lunga trattativa con vari governi esteri (tra i quali l’Italia) e il Fmi stabilì, nel 2005, che il 76 per cento dei titoli di Stato venisse scambiato con nuovi titoli il cui valore nominale era molto più basso: tra il 25 e il 35 per cento del precedente valore nominale. Un grande esproprio ai danni di milioni di risparmiatori stranieri (tra i quali migliaia di famiglie italiane) che avevano investito in titoli pubblici argentini attratti da tassi di remunerazione molto elevati.

Il pesos continuò a svalutarsi e si passò da un tasso di 1 peso per 1 dollaro vigente sotto il currency board a 3 pesos per 1 dollaro nel 2005. La svalutazione restituì competitività e l’industria argentina riprese ad esportare. Per circa cinque anni l’Argentina è stata tagliata fuori però dai mercati finanziari, considerata un pariah internazionale, anche negli organismi internazionali (Onu, Banca mondiale, Fmi etc.). Alcuni paesi per anni hanno deciso, per rappresaglia, di non acquistare più la carne e altri prodotti argentini.

Si pensi ad un dato: il debito argentino era al suo picco pari a 120 miliardi di dollari. Il debito pubblico italiano è oggi pari a 1.875 miliardi di euro. Che succederebbe se….

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