Oggi la libertà in Iran è una chiavetta Internet. Venerdì 9 settembre, Luciano Sovena e Carolina Terzi, di Cinecittà Luce e (molto più modestamente) io, aspettavamo alla Mostra del cinema di Venezia il regista iraniano Mojtaba Mirtahmasb. Lo aspettavamo per un seminario sul cinema dei diritti umani programmato da un mese, che avrei dovuto coordinare dopo la proiezione del suo film. Lo aspettavamo assieme a un giornalista iraniano suo amico – Rafat Ahmad – e a due registi siriani, perché Mojtaba avrebbe dovuto raccontarci dell’impresa compiuta insieme con Jafar Panahi girando This is not a film. Ma Mojtaba non è mai venuto. La sera prima di partire è stato fermato dal regime, niente passaporto. E oggi – assieme ad altri registi arrestati con lui – è finito in una cella.
La libertà in Iran prende la forma di un film che non si può fare, ma che si fa lo stesso nel segno del coraggio. La libertà oggi in Iran è una sfida che si combatte con l’intelligenza e con la fantasia. Per raccontare come Mojtaba Mirtahmasb sia diventato un pericoloso oppositore, bisogna raccontare la storia del suo amico Jafar Panahi. Jafar oggi è all’indice, un appestato. Sulla sua testa gravano una condanna e tre interdizioni liberticide: gli è fatto divieto di girare; gli è fatto divieto di scrivere sceneggiature; gli è fatto divieto di rilasciare interviste. La libertà in Iran è quello che ti resta quando hanno tolto tutto il resto. Ma è ancora molto più che nulla.
Una mattina Jafar chiama il suo amico produttore e documentarista Mojtaba e gli dice: “Ce l’hai una telecamera, vero?”. Mojtaba si spaventa: “Che cosa vuoi fare, Jafar? Lo sai bene che tu non puoi girare, vero?”. L’amico regista dall’altra parte del telefono sorride: “Io no, certo. Tu sì”. La storia che segue, infilata dentro questa come la storia di Jafar è infilata dentro quella del regime, oggi la possono vedere tutti, perché è stata girata da Mojtaba e infilata dentro un film che è uscito dal Paese in una chiavetta-dati. La storia che segue è un film che non è un film, ma che è diventato più bello del film che avrebbe potuto essere.
La mattina in cui Jafar arriva con la telecamera nella bella casa di Panahi a Teheran e inizia a riprendere l’amico, lui gli fa questo discorso: “Mi è proibito scrivere, ma certo non di aver già scritto. Mi è proibito di girare, ma certo non di essere ripreso. Mi è proibito fare interviste, ma certo non di leggere una sceneggiatura”. Mojtaba non lo sa ancora, ma mentre filma queste parole si è incamminato anche lui sulla via che lo porterà entro due anni in carcere. “Sai cosa faremo? Io leggerò per te una sceneggiatura che ho già scritto e che la commissione di censura conosce perché ha deciso di non finanziarla. Tu monterai queste immagini e dirigerai il film che io non ho potuto dirigere: This is not a film”.
La libertà oggi in Iran è fantasia. E il non-film di Jafar e Mojtaba diventa molto più bello del film che forse avrebbe girato: intelligenza, coraggio, genialità, dinamite pura. La casa di Jafar si trasforma in un set, l’unico set possibile. Mojtaba si arrampica su una scala per simulare un dolly. E Jafar – come in Dogville di Von Trier – disegna la pianta della casa in cui avrebbe dovuto girare la prima scena con il nastro adesivo, sul tappeto persiano del suo soggiorno. Jafar disegna anche i gradini. E comincia a simulare i passi che avrebbe fatto la sua protagonista, una ragazza dell’Iran di oggi, nel tempo dei diritti negati. Subito dopo il regista prende una sedia. La piazza sulla linea del muro disegnata con il nastro adesivo e spiega all’amico: “Questa è la finestra. Da questa finestra avremmo visto la ragazza tornare a casa. Da questa finestra avremmo raccontato sei minuti e mezzo della sua vita”. Ha già in mente tutto, un piano sequenza mai girato, descritto nei minimi dettagli.
Ma quando i due amici hanno finito di girare la scena, con grande fatica, Panahi, che fino a quel momento era stato elettrico, febbrile ed emozionato, Panahi, che aveva camminato, saltato, che si era persino sdraiato per terra per simulare un letto, si fa prendere dallo sconforto: “Ma ha senso tutto questo? Non riprendermi, taglia!”. E qui la risposta dell’amico è una battuta meravigliosa: “No Jafar! Non stai dirigendo tu, sarebbe reato. Sto dirigendo io, non te lo ricordi più?”. Chissà se anche per questa battuta oggi Mojtaba è agli arresti.
A Venezia, il giorno in cui lui non è potuto venire, un suo collega siriano, Ossama Mohammed, ci ha raccontato che per lui la libertà è la sceneggiatura di dieci cartelle che ha letto per noi. Un altro regista siriano oggi esule in Francia, Charif Kivan (del collettivo Abbuonaddare), ci ha detto che per loro la resistenza al regime è mettere in onda un film di un minuto con quello che succede a Damasco. Per Mojtaba che oggi è in carcere, la libertà è un tappeto ripreso dall’alto, arrampicato su una scala. In This is not a film Jafar che parla con il suo avvocato, mentre lei gli spiega che rischia vent’anni è il film. Jafar e Mojtaba che ricevono i pasti a casa da un pony express è il film. I colpi della polizia che spara per le strade di Teheran mentre loro girano nel salotto sono il film. Lo sono anche la velocità del racconto e il contrappunto tra la lentezza ancestrale dell’iguana di Panahi e il trillo per noi familiare (e onnipresente) del suo iPhone.
Una notte, mentre di nuovo si spara, Jafar corre con il suo telefonino alla finestra e riprende. Non si vede nulla. Anzi, apparentemente nulla, solo le luci della notte. In realtà moltissimo. Perché Mojtaba mette quel frammento di due minuti, montato, nel film. E noi sappiamo che quei 30 secondi di immagini riprese dall’iPhone sono un’altra sfida al regime. C’è anche una sequenza in cui Jafar riprende Mojtaba e Mojtaba riprende Jafar, è in montaggio alternato. Panahi dice: “Lo sai cosa fanno i parrucchieri quando sono annoiati? Si tagliano i capelli a vicenda”. Scoppiano a ridere tutti e due.
La lezione, oggi, per noi che vediamo l’Iran da fuori, è sapere che il cinema può disegnare la libertà dentro un tappeto e farla viaggiare nel mondo dentro una chiavetta. La libertà è una moderna Sherazade. Anzi, anche grazie a Mojtaba la libertà è il racconto: l’unica passione a cui nessun regime potrà mai mettere le manette.
Il Fatto Quotidiano, 24 settembre 2011