“Ma voi che volete capire ancora? Qua la spiegazione è semplice: la festa dei gigli a Barra è una festa di cafoni in un quartiere dove la camorra comanda tutto ed è padrona di tutto. Pure di Cristo, dei santi e di chi si batte il petto alla ricerca del perdono. E mo statevi bene che non tengo tempo da perdere”.
Poche parole, pronunciate con la fretta di chi non vuole farsi vedere insieme al giornalista venuto a chiedere notizie e fare domande su quella scena da Napoli irredimibile che da giorni è sotto gli occhi di tutta Italia grazie al lavoro di Claudio Pappaianni, bravo cronista de “L’Espresso”. Il Giglio, enorme, fallico, segno di devozione e potenza, issato su una folla di uomini, donne e bambini. Devoti di Sant’Anna e tifosi della “paranza” che ha costruito la macchina religiosa più bella. E poi l’automobile infiorata, bella, luccicante e sfarzosa. Simbolo di una potenza moderna sguaiata e pacchiana. E a bordo il padre del boss, a pochi passi il figlio che ha fatto il master della camorra a Poggioreale per dieci anni, e la banda che suona “Il Padrino” di Nino Rota. E applausi, urla, come allo stadio. “Si gruosso, si ‘o bene nuosto”. Sei grande. Il vecchio professore ci era stato indicato come esperto di tradizioni, usi e costumi locali, volevamo che ci facesse da guida in questa jungla di case vecchie e sgarrupate, palazzoni del dopo terremoto tutti uguali, capannoni dell’industria che fu abbandonati e arrugginiti, boutique, negozi cinesi tutto a un euro, pizza a metro e kebab. Ma non ne ha voglia. Ci saluta quando si accorge che troppi sguardi ci fissano, ma prima si raccomanda: “Non scrivete il mio nome sul giornale”.
Barra, San Giovanni e Ponticelli: il triangolo della camorra. Qui anche le pietre sanno raccontarti dei morti uccisi nelle varie guerre tra i clan. “Un minuto di silenzio per i morti nostri”, hanno chiesto i boss al passaggio del giglio. E sono stati accontentati. Perché non si può dire di no quando a chiederti una cosa è uno dei Cuccaro. Sono loro, insieme agli Aprea che comandano a Barra, “quartiere-stato” della camorra. Controllano il mercato della droga, il racket delle estorsioni, si occupano di lavori nell’edilizia e rapine ai tir. Tutto è nelle loro mani. “Guagliò, qua le cose non stanno bene, questa è l’imbasciata, portala ai tuoi titolari. Noi torneremo a breve e il primo che abbusca (viene picchiato a sangue, ndr) sei tu”. Erano queste le parole che Raffaele Cuccaro e i suoi uomini usavano per convincere un imprenditore a pagare il pizzo, la “tassa della tranquillità”. E i loro alleati, gli Aprea, non sono certo da meno. A don Vincenzo, il boss, fratello di Giovanni, amabilmente chiamato “pont’e curtiello” (punta di coltello), bastarono poche parole per risolvere “’o problema”. Portare l’attacco finale a quelle “cape pazze” dei Guarino e degli Alberti che volevano fare “gli scissionisti”, mettersi in proprio. Cuccaro, Aprea, clan sterminati. Figli, cognati, parenti, compari e cumparielli. L’anno scorso le donne degli Aprea (Giuseppina, Lena e Patrizia, le sorelle di don Vincenzo) furono arrestate e portate a via Medina. “Erano loro a gestire l’economia del clan – scrissero gli agenti della Mobile – loro che pagavano gli stipendi degli affiliati”. Camorra potente, che ama stare in prima fila.
E la festa dei Gigli è un palcoscenico. Tradizione che non esisteva a Barra. I Gigli, si portavano solo a Nola, nell’entroterra dei “cafoni”, ma nel 1882 i “barresi” decisero che pure loro dovevano averli, più alti e più belli. La Chiesa, all’inizio, si disse contraria (il Giglio rimandava troppo a simboli fallici e pagani), poi decise di chiudere un occhio. Oggi li ha chiusi entrambi. Il Giglio è il simbolo della potenza, se conti a Barra il tuo dovrà essere il più maestoso. L’organizzazione della festa è in mano alle “paranze”. Mondiale, Insuperabile, Formidabile, Amici Miei, Ultras Barrese. Si chiamano così. I loro capi sono i “mast’e festa”, “i padrini”, “i caporali”. Ruoli e simbologie che richiamano le gerarchie del clan e che piacciono alla camorra. La festa è sfarzosa, i capiparanza arrivano a bordo di macchine fuoriserie, Bentley, Ford Mustang, un anno hanno usato anche un elicottero. E la chiesa lascia fare. “Di fronte a fatti del genere ho sempre una tentazione radicale – ci dice don Tonino Palmese, prete e anima di Libera a Napoli – un paese diventa civile quando riesce a purificare queste manifestazioni popolari. Via la camorra dalle feste religiose! Il quartiere di Barra vive nella sudditanza dei boss. Lo dicono gli arresti, la topografia con zone off-limits, lo dice la paura della gente”. Marino Niola, antropologo della contemporaneità, analizza da anni il ventre moderno di Napoli. “Si stupisce chi non conosce questi fenomeni, chi non sa che certe dinamiche religiose sono strettamente intrecciate con la cultura criminale. I camorristi sono presi da una forte ortodossia religiosa. L’architettura della festa è molto complessa, c’è di tutto, come in un condominio, il devoto sincero e il malacarne. E a Napoli, città delle compresenze, convivono realtà dominate da questi codici e pezzi di modernità. È la città che a maggio ha votato e ha stupito l’Italia, e che oggi sembra ricadere in questo abisso”. Le immagini della processione con i boss fanno il giro del web e il sindaco Luigi de Magistris è infuriato: “È un episodio vergognoso, come vergognosi sono coloro che, rivestendo ruoli istituzionali laici o religiosi, prendono parte a simili occasioni, di fatto avallando il tentativo del crimine organizzato di controllare il tessuto sociale anche per mezzo di comportamenti simbolici assolutamente inaccettabili”.
da Il Fatto Quotidiano del 28 settembre 2011