Il governo del presidente boliviano Evo Morales ha perso due pezzi importanti. Lunedì sera si era dimessa la ministra della difesa Cecilia Chacon, che con una lettera aperta ai giornali boliviani aveva criticato la scelta del governo di far intervenire la polizia antisommossa per fermare la marcia di protesta delle comunità indigene amazzoniche contro il progetto di autostrada Cochabamba-San Ignacio de Moxos. Oggi è stato il ministro dell’interno Sacha Llorenti a lasciare l’esecutivo. Llorenti è stato al centro delle polemiche seguite al duro intervento della polizia contro i manifestanti, partiti a metà agosto dalla città di Trinidad, nella provincia orientale del Beni e diretti nella capitale La Paz. Domenica scorsa 500 agenti hanno attaccato l’accampamento provvisorio messo in piedi da alcune centinaia di manifestanti nei pressi della cittadina di Yacumo, 250 chilometri a nord est di La Paz. Negli scontri, alcune centinaia di manifestanti sono stati arrestati e un bambino di quattro anni è morto per intossicazione da lacrimogeni. Llorenti ha annunciato le proprie dimissioni ma ha difeso Morales, negando che l’ordine di intervenire contro i manifestanti fosse partito da lui.
La protesta contro il progetto di autostrada (finanziata dal Brasile e costruita da una ditta brasiliana) era iniziata a metà agosto, quando 16 comunità del Territorio indigeno parco naturale Isiboro Sécure (Tipnis, dove vivono circa 50 mila persone) minacciate dal tragitto della nuova autostrada hanno lanciato una marcia di 500 chilometri da Trinidad a La Paz.
L’intervento della polizia ha scatenato proteste contro il governo in molte zone del Paese, compresa La Paz, dove migliaia di persone hanno manifestato davanti al palazzo presidenziale, nel cuore del centro storico coloniale della città, circondato da centinaia di agenti pronti a intervenire. Morales, che appoggia il progetto fin dall’inizio, è stato costretto prima ad annunciare un referendum nei dipartimenti di Cochabamba e Beni, poi ha prendere le distanze dall’operato della polizia, giudicato “eccessivo”, quindi ad annunciare una commissione di inchiesta indipendente per accertare i fatti e le responsabilità e infine a ordinare lo stop ai lavori per l’autostrada, già avviati in alcuni tratti del percorso.
L’autostrada Cochabamba-San Ignacio de Moxos è parte del ramo boliviano di un colossale progetto di collegamento terrestre lanciato dal governo brasiliano per connettere Manaus, “capitale” dell’Amazzonia brasiliana, con i porti ecuadoriani e peruviani sul Pacifico, in vista di un aumento degli scambi commerciali tra l’America del sud e l’Asia orientale. Morales ha appoggiato il progetto fin dall’inizio, senza tenere conto della reazione dei popoli indigeni amazzonici boliviani che gli contestano di favorire gli indigeni dell’altopiano, quechua e aymara, da cui il Movimento al socialismo (Mas), il partito del presidente, trae la sua principale base elettorale. Inoltre, movimenti sociali boliviani, come quelli attivi a Cochabamba (la città dove nel 2000 le proteste popolari costrinsero la dittatura di Hugo Banzer a bloccare la privatizzazione dell’acqua), accusano il governo di aver tradito l’impegno di protezione delle risorse naturali boliviane e di salvaguardia dei diritti della Pachamama (Madre terra) inseriti nella nuova costituzione del 2009.
Le cose, come spesso accade in Bolivia, sono molto complesse. Anche all’interno del Mas ci sono voci contrarie al progetto e non solo per ragioni di tutela ambientale. il ministro Chacon si è dimessa ieri con una lettera aperta pubblicata dai giornali boliviani in cui accusa il presidente di aver usato metodi che contrastano con l’ispirazione politica del Mas e con il mandato ricevuto dagli elettori, che nel 2009 hanno rieletto Morales con oltre il 64 per cento dei voti: “Non è questo il modo – ha scritto la ministra Chacon – Siamo sempre stati d’accordo sul fatto che avremmo fatto le cose in modo diverso”. È questa la ferita principale per l’immagine di Morales, primo presidente indigeno della storia latinoamericana: essersi comportato (quasi) come i suoi predecessori.
di Joseph Zarlingo