“Il malcontento rischia di lasciare definitivamente il campo libero alla rivolta”, mi disse a Sana’a un amico yemenita, nel luglio del 2005. In quei giorni, in città, i disordini provocati dall’aumento del prezzo della benzina avevano causato la morte di trentacinque dimostranti e quattro uomini delle forze di sicurezza.
Dalla terrazza di casa mia, in un vicolo dietro il suq dei vasai, i colpi dei kalashnikov dei soldati si mischiavano a quelli sparati per festeggiare qualche matrimonio (il divieto di entrare in città senza armi da fuoco è stato varato solo nel 2007).
Gli scontri erano iniziati il mercoledì mattina davanti a diversi ministeri e a midan al-Tahrir, la stessa piazza dove in questi mesi più volte la gente ha manifestato e dove i cecchini del governo, con continuità, hanno aperto il fuoco per uccidere deliberatamente.
Il venerdì, prima della preghiera, sul wadi as-Sailah, adolescenti in tuta mimetica impugnavano bastoni, presidiavano le via d’accesso alla piazza e controllavano i fedeli davanti alla moschea di Qasmi Street che quel giorno riempivano le vie adiacenti e i ponti che portavano alla città vecchia. Tutti aspettavano i discorsi degli imam e le dichiarazioni di qualche ulema. Non ci fu nessun incitamento a proseguire la rivolta. Il presidente-maresciallo Saleh aveva raggiunto l’ennesimo accordo con il mondo religioso. Apparentemente tutto si era normalizzato.
Ma il malcontento aveva continuato a maturare. Ancor prima di arrivare ai tragici fatti attuali, ai tumulti sempre più violenti scoppiati, inizialmente, sull’onda di quanto stava accadendo in Tunisia, Egitto, Libia e in altri paesi arabi, la situazione nella decrepita Arabia Felix non era delle più rosee.
Nel 2006 Saleh, venendo meno alle sue promesse, è stato rieletto, ottenendo un nuovo mandato presidenziale; gli scontri con il clero dissidente di al-Huthi sono continuati per tutto il 2006, il 2007 e il 2008 (nonostante il cessate il fuoco accettato dal leader dei ribelli ‘Abd al-Malik al-Huthi nel giugno del 2007), rapimenti di turisti e attentati contro rappresentanze occidentali si sono susseguiti fino al 2011 causando morti e feriti in diverse città dello Yemen, l’economia è in ginocchio da anni, il sud è inquieto e insofferente al potere centralizzato di Sana’a.
E così si è arrivati alle proteste per chiedere le dimissioni del presidente-maresciallo: ai diecimila studenti in piazza, alla Giornata della collera, all’insurrezione vera e propria in molte parti del paese, in quelle regioni scarsamente menzionate dai media.
Com’era ovvio, la repressione, finanziata in buona parte dall’Arabia Saudita (come riportato anche nell’interessante reportage di Abdul Bari Atwan apparso su “al-Quds al-Arabi”), è stata feroce e ha fatto centinaia di vittime e feriti.
In una escalation sempre più drammatica il paese è precipitato nel caos. Le manifestazioni si sono fatte quotidiane, così come i morti. Ma’rib, Ta’izz, Aden e Sana’a si sono riempite di uomini armati. I militari hanno bombardato i villaggi del nord per tutta la primavera.
Il 3 giugno, un razzo lanciato dai rivoltosi, ha colpito una moschea dentro il compound presidenziale ferendo il primo ministro Ali Mohammad Mujawar, due vice primi ministri, i presidenti dei due rami del Parlamento e il presidente-maresciallo stesso, trasportato in Arabia Saudita per farsi curare. Partenza salutata con canti e balli per le strade.
Ma il caos selvaggio, quasi ignorato dall’occidente, è proseguito per tutta l’estate e il 23 settembre, con la benedizione del re saudita, il presidente-maresciallo è tornato, catapultato in un paese in preda alla guerra civile.
Il suo ritorno ha spinto migliaia di suoi sostenitori in strada. Nuovi scontri e numerosi morti si sono registrati a piazza del Cambiamento, a Sana’a, dove da mesi civili e soldati dissidenti occupavano questo luogo divenuto ormai simbolo della rivolta.
Saleh, durante sua convalescenza dorata in Arabia Saudita, aveva promesso una soluzione pacifica alla crisi, ma secondo un’opinione diffusa in città, starebbe cercando di assicurare un posto di potere a suo figlio Ahmed, attuale comandante della Guardia repubblicana, cercando nel mentre di sbaragliare ogni tipo di opposizione.
Intanto, nei giorni che dovrebbero commemorare l’anniversario della rivoluzione del 26 settembre del 1962, che aveva trasformato lo Yemen del Nord da imamato a repubblica “democratica”, sono in corso scontri fra i militari fedeli al regime e quelli passati all’opposizione.
La popolazione è allo stremo. Manca il cibo e l’acqua potabile scarseggia. “Il malcontento rischia di lasciare definitivamente il campo libero alla rivolta”, mi disse quell’amico yemenita, nel luglio del 2005, mentre fuori dalla finestra i colpi dei mitragliatori cercavano di fare breccia fra la coscienza della popolazione. Oggi pare ci stiano riuscendo.