Ferrara, Festival Internazionale. Inizia a dispiegarsi la mattina, il filo conduttore che unirà in un unico grande racconto di impegno civile, gli ultimi dieci anni di proteste di un movimento chiamato no-global prima, studentesco poi, rivoluzionario in questi ultimi mesi.
Dalla protesta di Genova fino alla Primavera araba, la società civile lenta ma inesorabile, inizia a ribaltare un potere politico costituito sulle disuguaglianze economiche e sul potere militare corrotto.
Il popolo, guardando a questi eventi, sembra che possa avere la meglio. Che la comunicazione, possa fare la differenza.
Si parla, nell’incontro dall’eloquente titolo “Europa in bancarotta”, di una crisi economica che è entrata nei confini di Shengen, e che sta diventando inevitabilmente politica. Le risposte all’oppressione occidentale arrivano dall’estremismo del Pakistan, dove il londinese Jason Burke racconta gli ultimi giorni insieme a una figura simbolo della rivolta civile, Benazir Bhutto (assassinata nel dicembre del 2007) fino ad Al-Qaeda, assieme al pachistano Rahimullah Yusufzai, ultimo giornalista ad aver intervistato l’altro lato del potere economico Osama Bin Laden.
Nel frattempo, in Russia, il presidente Medvedev obbliga il ministro delle Finanze Kudrin a rassegnare le dimissioni: “Come se Berlusconi desse il benservito a Tremonti”, cerca di spiegare Andrei Soldatov, realizzando un paragone più che verosimile con la situazione Italiana. Ma in Russia, chi racconta, rischia e spesso perde la vita, come la giornalista della Novaja Gazeta assassinata nel 2007 perché illuminava ostinatamente i crimini di stato commessi nei confronti della popolazione cecena. A lei, Anna Politkovskaja è dedicato il premio per la libertà di stampa: con la consegna del riconoscimento al giornalista blogger egiziano Hossam el Mamalawy, che ha raccontato in diretta (su arabawy.org) la rivolta egiziana di febbraio che ha portato alle dimissioni, dopo 20 anni di potere, del presidente e comandante Hosni Mubarak, si testimonia che grazie all’informazione testarda unita al coraggio dei manifestanti, piazza Tahrir può vendicare piazza Alimonda.
Detenuto e torturato dai servizi segreti egiziani nel 2000 durante il regime di Mubarak per le sue inchieste sull’esercito, il giornalista dedica il riconoscimento a tutti i colleghi ancora in queste ore sono impegnati nel seguire l’evoluzione degli eventi, e accende ancora una volta i riflettori su “quell’esercito di attivisti, di giornalisti e di semplici cittadini che sono diventati testimoni e diffusori dei fatti nel momento in cui hanno scritto e raccontato attraverso la rete quello che stava e sta accadendo. Sono qui per diffondere ulteriormente le informazioni e nella mia terra ci aspettiamo la solidarietà dei cittadini liberi del mondo”.
Torture che ricordano quella avvenute in un paese civile, durante una manifestazione pacifica: Italia, meeting del G8, dei paesi che contano. Ne parlano all’incontro “Genova, dieci anni dopo” tre giornalisti testimoni – come Riccardo Chartroux che modera gli interventi – di quelle giornate, lo statunitense Jeff Israely (Worldcrunch), e i francesi Eric Jozsef (Libération) e Serge Enderlin (Le Temps), analizzando a dieci anni di distanza, quello che è stato definito da Amnesty International, “la più cruenta e ingiustificata repressione di massa della storia europea recente”.
“Era un contesto internazionale e nazionale già molto teso – ha ricordato Enderlin – complicato, con avvisaglie significative nei mesi precedenti, ma la situazione è precipitata dopo un giorno dall’inizio del vertice, quando la polizia ha caricato i manifestanti pacifici, mentre i Black Block agivano indisturbati”.
Tutto questo, è stato raccontato la sera al Teatro Comunale grazie all’impressionante e concentrato lavoro di Carlo A.Bachschmidt, “I giorni di Genova”, che ha estratto, attraverso l’unione di documenti audio (alcuni mai ascoltati prima) e video, con la lettura degli atti processuali e delle testimonianze di vittime e spettatori, la verità di quei giorni. Alla fine dello spettacolo, alla sua prima e (per ora) unica rappresentazione nazionale, gli accadimenti risultano inconfutabili, tragicamente e spietatamente logici ed evidenti. Il potere militare protetto dallo stato, a Genova si è accanito con una violenza animale contro la libertà di protesta della società civile. Si ascolta la violenza delle torture psicologiche e delle continue minacce sessuali della polizia sui manifestanti arrestati senza mandato nel blitz della Diaz, si vedono i fori nella testa di Carlo Giuliani, ucciso dalla polizia e i tentativi di depistaggio di questo dato di fatto. Si respira, attraverso le immagini, la paura dei giovani poliziotti armati con mazze ferrate e armi che vanno ben oltre quelle d’ordinanza, che si trasforma in accanimento cieco contro qualunque corpo si trovano di fronte. L’incredulità dei cittadini, che per tre ore, mentre i Black Block devastano e percorrono indisturbati Genova, chiamano un centralino, quello delle forze dell’ordine, che non interviene.
Tutto questo, non è ancora riconosciuti dalla giustizia. Primo fra tutti perché in Italia non esiste il reato di tortura. Ingenuità o ferma volontà di non ammettere o rivelare tale possibilità? Quando si perde il controllo, il potere politico ha più paura del popolo, e la rivolta diventa guerra. Lo abbiamo visto, e lo stiamo ancora vedendo, in Libia.
“Coraggio”, qualcuno dice fuori dal teatro ad Haidi Giuliani, che assieme alla famiglia Aldrovandi ha assistito allo spettacolo. “Ho la sensazione che dovremmo averlo in tanti, oggi” risponde. Come siamo messi 10 anni dopo Genova? “se è possibile, oggi è ancora peggio”, riflette la senatrice. “io sono una vecchia comunista, ma sono convinta che quella violenza, sia il frutto della violenza intrinseca nel capitalismo che non permette l’unione, come si era trovata in quell’occasione, fra lo spirito cristiano e quello comunista. Racconta la mamma di Carlo, che ai piedi del G8 c’ha perso la vita ucciso dalle forze dell’ordine. “Pensi a Moro, che aveva tentato questa unione e l’hanno ucciso. Poi, certo, le Brigate Rosse dicono …”. Di nuovo, violenza di Stato. “Oggi questi ragazzi – prosegue riferendosi alla primavera araba – manifestano giustamente per loro, per la loro dignità, contro un sistema che li opprime. Allora, manifestavano per i diritti degli altri. Nel 2001 si è deciso che bisognava mettere a tacere la protesta e l’informazione”.
Un’informazione che riemerge proprio dai giovani, come è successo in Egitto, e che passa attraverso la rete internazionale (internet, per l’appunto). Passando all’incontro “Rivoluzione, atto primo – Speranze e pericoli dopo Mubarak”, potrebbe sembrare che poco sia cambiato. Al Cairo si attendono le elezioni di una casata politica non epurata “il consiglio ha riabilitato i vecchi personaggi” e “c’è la paura che tutto torni come prima, molti colleghi sono depressi”, racconta Ahmed Nagi, giovane giornalista egiziano: “ci sono due vie: i radicali, che non si accontentano di nulle di meno delle rivendicazioni di febbraio; e dall’altra chi giustamente vuole porre fine a un’incertezza politica ed economica che alla lunga logora il paese e la sua economia e il morale delle persone”, prosegue il giovane. E invece, bisogna cambiare metodo, e focalizzare l’attenzione su nuove vie, risponde El Mamalawy: “ci sono mille mini Mubarak annidiati nelle istituzioni, e d è per questo che gli scioperi continuano ancora. Non è una minaccia alla stabilità, ma l’autentica e unica possibile prosecuzione della rivoluzione. Boicottare le elezioni che vedono i generali al potere, e che verranno supervisionati dalla stessa persona che si occupò delle famose elezioni del 2010 ch videro Mubarak col 97% dei consensi, è la prima cosa”. Il ruolo dei media? Prosegue: molti pensano che ci sia una contrapposizione fra media istituzionali e media sociali. In realtà c’è un matrimonio ufficiosa frai due. Volontariamente o meno, Al-Jazeera ci fa da cassa di risonanza”. Continuare dunque a tenere i riflettori accesi su tutte quelle rivolte che, anche se avviate e veicolate dal mondo del web “democratico e libero”, stanno continuando nelle fabbriche, nei campus universitari e nei paesi, dando vita a soluzioni “governative” locali e spontanee. Come esclama un contagioso l’attivista: “E’ questa la vera democrazia partecipata”.
Le fotografie sono di Sara Lusini