Ammazzato prima della messa del mattino, in sacrestia. Si chiamava don Peppe Diana. I processi hanno appurato che a ordinarne l’omicidio fu Nunzio De Falco, il quale, dopo aver dato mandato a diversi avvocati, nel 2003 si rivolse all’onorevole Gaetano Pecorella, che, per un caso fortuito, in quel momento era anche presidente della Commissione Giustizia.
Certo, non si poteva pretendere che un personaggio come Pecorella seguisse l’esempio di Pertini, che assistette la madre di Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia quando ancora il reato di mafia nei tribunali non esisteva. Però, se è vero che ogni imputato ha il diritto alla difesa, sarebbe anche opportuno, per chi ricopre un incarico così delicato, essere più oculato nel decidere chi assistere. O, in alternativa, lasciare ad altri il proprio incarico in Commissione.
Due anni fa, Alessandro Didoni e Dario Parazzoli hanno voluto chiedergli conto di quella scelta. Per rispondere loro, Pecorella ha agito in due modi. Innanzitutto ha deciso di infangare la memoria di don Diana, affermando, con allusioni in perfetto stile mafioso, che il prete in realtà nascondeva le armi della camorra in sacrestia. Poi, non soddisfatto, ha querelato i due cittadini, che riprendevano la sua performance, per violazione della privacy, così che il secondo dei due si è trovato tre ufficiali di polizia spediti a casa sua per una perquisizione (alle sei del mattino e dopo tre giorni lavorativi) con lo scopo di sequestrare il materiale scottante: la schedina della videocamera. Qualche mese fa, le indagini su Dario e Alessandro sono state chiuse e il caso, naturalmente, archiviato.
E un’altra buona notizia: viene inaugurato un nuovo caseificio, sui terreni confiscati alla camorra, grazie alla cooperativa Terre di don Peppe Diana.
A questo punto, ci auguriamo che qualcuno si premuri di donare qualche mozzarella di bufala a Pecorella. Forse, almeno così, riuscirà ad apprezzare finalmente il sapore della legalità.