Ci sono tuttavia momenti della vita e passaggi della storia dove la disperazione rende tutto più semplice. Anche nella politica dove i professionisti, prima di fare un passo, vogliono sapere cosa succederà dopo e soprattutto succederà alle loro persone. Rivendicando magari la superiorità dell’etica dei risultati su quella dei principi. Anche nella politica, quando la casa brucia, può capitare di decidere che è meglio rischiare di morire buttandosi dalla finestra invece di bruciare con essa. Ci sono momenti nei quali le cose vengono fatte semplicemente perché debbono essere fatte. Era quello appunto il momento.
Allora come ora sentivamo che la casa della nostra democrazia, il sistema di regole e istituzioni che chiamiamo Repubblica era a rischio. Sentivamo che sul campo riarso dalla calura della disperazione andava alzandosi il maestrale. Sarebbe bastato un cerino. Basterebbe un coccio di vetro a fare da lente per i raggi del sole. Il momento migliore per gli incendi. Di questo appunto parlammo. Su questo concordammo. Per questo ci incontrammo. Potevamo lasciare i cittadini sempre più accalorarsi per lo spettacolo di immoralità e degrado che viene dal Palazzo, mentre infuria la tempesta economica e finanziaria, privi non solo nell’oggi, ma anche nel domani della possibilità di trasferire i loro sentimenti e le loro proposte ad un Parlamento “loro” perché le traducesse in decisioni? Potevamo lasciare che la democrazia si riducesse a tumulto, i cittadini a folla, le istituzioni a piazza? Perché questo era appunto quello che era successo e va purtroppo succedendo.
Di fronte ad un governo commissariato dall’estero costretto a legiferare sotto dettatura da poteri e meccamismi privi di qualsiasi legittimità democratica, sta un Parlamento percepito e dileggiato come una casta separata perché appunto separato dal Popolo, attraverso la separazione degli eletti dagli elettori e la loro trasformazione in nominati. Potevamo lasciare il Paese privo della istituzione che in ogni democrazia rappresenta il Popolo? Potevamo lasciare i cittadini nell’ alternativa di cedere al furore distruttore dell’antipolitica, o sperare ancora nella capacità del Parlamento di autoriformarsi senza la pressione, il pungolo dell’arma estrema che la Costituzione mette nella mani dei cittadini, come appunto era stato appena sostenuto perfino dal principale partito della opposizione che con un voto al 96% aveva deciso “che non si possa sostenere contestualmente la modifica della legge in vigore da parte del Parlamento e la presentazione di un referendum in materia?”.
Da questo la decisione disperata dell’inizio di agosto. Son passati due mesi, eppure sembra un secolo. Se tutto è cambiato è proprio grazie ai 1.210.644 “basta!” che ieri 30 settembre abbiamo depositato in Cassazione, e alle decine di migliaia che la posta e i corrieri continuano a recapitare a ogni consegna da ogni parte del Paese. Ad oggi un milione e mezzo di “basta con le porcate, con il porcellum, con i porcelli”. Un milione e mezzo di “basta” tuttavia politici, democratici, istituzionali, moderati di cittadini che in fila hanno riempito i moduli e sottoscritto educatamente la loro rabbia e la loro speranza nel rispetto delle forme della legge. Altro che antipolitica! Se questo non fosse avvenuto entro il 30 settembre del 2011 tutto sarebbe continuato come prima almeno fino alla prossima legislatura. Se questo non fosse avvenuto nella misura che Morrone ha definito giustamente un miracolo chi avrebbe potuto mai immaginare dichiarazioni come quella di Alfano, il segretario del primo partito della maggioranza, che, con sei anni di ritardo si è affrettato a riconoscere che i cittadini erano stati derubati del loro principale diritto? Chi avrebbe mai immaginato che Maroni, ministro dell’Interno del secondo partito di maggioranza si sarebbe affrettato ad annunciare con sei mesi di anticipo lo svolgimento del referendum e la necessità che comunque il Parlamento già oggi lavori nel solco dei quesiti? “Che lezione!” ha titolato giustamente Padellaro riferendosi a quella di ieri. Ben altra sarebbe tuttavia la lezione riservata domani a chi non riuscisse ad apprenderla oggi.
di Arturo Parisi
da Il Fatto Quotidiano del 2 ottobre 2011